by Editore | 15 Aprile 2011 6:24
Si è proceduto con troppa fretta? Non necessariamente. Per certo, la lettura del Pnr, il volume più corposo, è apparentemente ostica. Attento studio parrebbe necessario per comprendere gli incroci fra una complessa tassonomia di azioni e misure e le classificazioni comunitarie ispirate a Lisbona: fin quando ci si rende conto che quelle comunitarie sono solo cornici al nulla. Così, si apprende che, ma non si comprende come, abbiamo sinora attuato 87 (ottantasette) “azioni prioritarie discendenti dall’annual growth survey e dagli specifici impegni di policy del patto europlus”. Si voltano allora le pagine con ansia per giungere all’ultimo capitolo, intitolato “Le riforme dell’Italia”. Ma quelle 52 non agili pagine suscitano memoria della seconda parte degli antichi (e deprecati) documenti di programmazione economica e finanziaria (i Dpef padri del Def): quella che un sempre indifferente ministro dell’Economia, allora come oggi, lasciava a disposizione dei suoi colleghi perché sfogassero il loro grafomane occorrismo (termine non più riferibile solo alla sinistra). Oggi come allora, manca qualsiasi indicazione operativa (e come tale controvertibile) a quelle generiche enunciazioni, vaghe e sommarie anche sul tema della riforma tributaria. Ma avrebbe ben ragione il ministro dell’Economia a ricordarci che (in sigle) il Def non è solo Pnr. Vi è una parte rigorosa, ricca di informazioni, e soprattutto interessante per le sue implicazioni di politica economica: quella dedicata al quadro macroeconomico e, in esso, alla finanza pubblica, materia su cui gli altri ministri non avrebbero potuto (e forse saputo) interloquire. Nel prossimo triennio la crescita resterà all’uno virgola, con lenta salita all’1,6 nel 2014, quando il prodotto reale non sarà ancora tornato al livello del 2007: se c’è stata una frustata, il cavallo non se ne è accorto e non se ne sono accorti al ministero dell’Economia. La bassa crescita non ha impedito che nel 2010 l’indebitamento delle pubbliche amministrazioni fosse più basso del previsto, grazie al contenimento delle spese; ma ha fatto crescere più del previsto il rapporto fra debito e Pil. Negli anni a venire si prevede un ulteriore contenimento della spesa rispetto al Pil: dopo un collasso di oltre il 16 per cento nel 2010, gli investimenti fissi pubblici continueranno a cadere, anche in termini assoluti (con buona pace delle imprese di costruzione); si ridurranno in quota i redditi dei dipendenti. La pressione tributaria e quella fiscale (che include i contributi) resterà invariata al notevole livello del 42 e mezzo per cento del prodotto (se le promesse fossero veramente debito, occorrerebbe aprire una contabilità speciale per i manifesti del partito di maggioranza). Questa rigorosa anche se doverosa austerità non basta tuttavia a consentire il rispetto degli obiettivi europei di una più rapida riduzione del rapporto fra debito e prodotto e di consolidamento della situazione finanziaria. Per raggiungerli, si deve mettere in conto una manovra correttiva di oltre 2 punti di Pil in due anni: non in questo anno, però, o nel prossimo, ma convenientemente rinviata al 2013-2014; dunque senza costi politici immediati per il governo ora in carica e in onere invece a quello che uscirà dalle elezioni. Difficilmente si può eccepire all’impostazione del ministro sulle questioni di finanza pubblica (se non al suo pur comprensibile opportunismo nella collocazione temporale della correzione). Ma il problema del perpetuarsi dell’uno virgola di crescita resta irrisolto: la vacuità del Pnr pone la sordina a una seria discussione di riforme mirate e non costose, come quelle spesso elencate da Tito Boeri e da altri colleghi. Si deve convenire con Giampaolo Galli (Il Sole del 13 aprile): “tenere i conti” è necessario, ma non basta; alla lunga, «se non riparte la crescita, non si risolve neanche il problema del debito».
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