by Editore | 1 Aprile 2011 7:26
ORIA – Il treno dei desideri ha la sigla “Le” e un numero: 562059. Arriva alla stazione ferroviaria di Oria alle 16,54, puntualissimo. «È questo?» domanda Youssef. «Sì, questo è quello per Taranto. Andiamo?». Nello scalcagnato scalo di questa città del Brindisino lontana appena tre chilometri dalla tendopoli di Manduria, che da oggi ospiterà più di tremila migranti sbarcati da Lampedusa, ci sono otto ragazzi come Youssef. Hanno tra i 20 e i 27 anni, giubbotti, jeans, scarpe Adidas, niente bagagli, due dicono di chiamarsi Ahmed e altri due Kaled, ci sono anche Komi, Niza, Komel. E poi c’è Youssef, che di anni ne ha 24 e che diventa il portavoce del gruppo. Parlano tutti in francese, non conoscono l’italiano. Aspettano il treno sotto un cartello dell’Ue con la scritta: «L’Europa investe nel tuo futuro». Sembra un presagio. «Abbiamo dormito per quattro giorni nel centro di accoglienza. Poi l’altra sera, abbiamo deciso di andare via. No, non abbiamo avuto problemi ad uscire dal campo. Ci siamo incamminati verso Oria e abbiamo raggiunto la stazione. Abbiamo dormito per strada. Sì, lo so, potevamo aspettare ancora e prendere il treno per Roma. Ma non possiamo rischiare di essere beccati, parte troppo tardi». Alle 21,49. Il sole è alto, lungo il viale alberato che porta alla stazione spunta il muso di un’automobile della polizia, ma gli agenti non scendono per vedere chi c’è e chi non c’è sul binario 1, fanno un mezzo giro della piazza e vanno via. Youssef e gli altri fuggiaschi, tirano un respiro di sollievo. «Non si sono accorti di noi». Tre o quattro italiani che aspettano lo stesso treno, fanno finta di niente. Ed eccolo il convoglio “Le 562059”. «Finalmente». Gli otto si sparpagliano in tutte le carrozze. Youssef insieme con Komel si accomodano all’interno di uno degli ultimi scompartimenti. «In questa maniera, cerchiamo di non essere notati». Sono per metà spaventati e per metà sorridenti. «Il viaggio non sarà breve». Pagano il biglietto. «Sì, abbiamo del denaro. Ma non ti diremo quanto abbiamo in tasca». Non ci si può fidare del primo venuto. «Komi, per esempio, sette anni fa ha vissuto in Francia. Quando Sarkozy è arrivato al potere ha cacciato dal Paese lui e tutti quelli come lui, clandestini. Vogliamo andare a Parigi, nessuno escluso. Io, proprio a Parigi, ho tre fratelli che lavorano. Che cosa farò? Il cameriere, il meccanico, qualsiasi cosa». Komel interrompe Youssef: «Il lavoro in Europa, è tutto. Io, un po’ di tempo fa, sono partito per la Turchia, ma sono ritornato indietro. Dopo tre mesi, avevo guadagnato solo 300 dollari. Ma in Tunisia, io sono di Djerba, è peggio: 3 euro al giorno, non di più. Bisognava scappare, a qualsiasi costo». Mezz’ora dopo le cinque del pomeriggio, il treno si ferma a Taranto. «Tutto bene, fino ad ora». Prossima tappa, Roma. Signori, si parte. «No, non so quando riusciremo ad arrivare a Ventimiglia. Se tutto andrà bene, da lì potremo proseguire per Nizza. Alla fine, Parigi». Il sorriso di Youssef, mentre dal finestrino scorrono i muretti a secco della campagna pugliese, all’improvviso si trasforma in una smorfia: «Mi dispiace che non sia qui con noi pure Walid, ha 28 anni, è più grande di me, ma siamo amici per la pelle. Ci siamo salutati al campo. Lui è rimasto perché ha bisogno di un permesso di soggiorno: vuole raggiungere la moglie in Germania, ma soprattutto vuole riabbracciare sua figlia, che ha otto mesi». Gli occhi di Youssef dipingono uno sguardo orgoglioso: «Dalla Francia vorrei rientrare in Tunisia con la mia carta. Sì, insomma, il documento che mi consentirà di non nascondermi come un topo. Voglio farla vedere a mia madre e a mio padre, per dimostrare che ce l’ho fatta. Ma è vero che a Ventimiglia non sarà facile passare la frontiera? I gendarmi non sono buoni. Però niente e nessuno potrà fermarci. Vedrai, ci riusciremo». Un treno dopo l’altro, col cuore in gola.
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