by Sergio Segio | 21 Aprile 2011 14:41
“Anche gli immigrati hanno sogni. E incubi. Voi pensate… ancora grazie che hanno un lavoro. Non immaginate che possano soffrire. Io sono una badante, venti ore al giorno chiusa in un appartamento, in una città di cui non capisco la lingua. Con una donna morente. Sono depressa fino alla disperazione”. Elisa è lituana, ha 47 anni. Sta zitta per ore, ma appena l’interprete traduce i discorsi scopri che cosa si nasconde dietro i suoi occhi azzurri.
“È dura far accettare che gli immigrati soffrono come noi di depressione, esaurimento, panico. Per di più con il trauma della migrazione”. Francesca Vallarino Gancia, psicoterapeuta, è nel suo Centro Etnopsichiatrico. Il nome astruso contrasta con l’ambiente pieno di vita. Siamo nella periferia torinese. Il Centro è una vecchia cascina dimenticata tra i condomini. Un’isola, così devono vederla gli immigrati che vi approdano per essere aiutati.
Mamre si chiama l’associazione di cui Vallarino Gancia è presidente. Qui lavorano 29 psicoterapeuti, mediatori culturali e antropologi. Ma c’è anche la cooperativa “Il Crinale” a Milano, c’è il Dipartimento di Salute Mentale Roma B. Decine di strutture che in Italia, con approcci diversi, affrontano la sofferenza psichica degli immigrati. “Mancano i fondi. E bisogna superare l’indifferenza”, spiega Ida Finzi, psicoterapeuta del Crinale. “Pochi si rendono conto di quanto pesi cambiare mondo. Ciascuno di noi appartiene a un luogo, a una cultura. È un involucro che contiene e delimita il senso di sé”, spiega Finzi. Già , da una parte le radici, dall’altra l’ambiente in cui vorresti integrarti. E comincia la sofferenza: giovani divisi tra la cultura dei genitori e quella dei compagni, donne sole ad affrontare la maternità , uomini consumati da lavori allucinanti. E famiglie separate per anni: al ricongiungimento sono estranei.
“LE DONNE affrontano l’emozione della maternità in solitudine. Nel loro Paese avevano la famiglia che le sosteneva perché la nascita altrove coinvolge tutti”, racconta Finzi. Ecco la prima differenza con la nostra società individualista. Nel lavoro di Vallarino Gancia, Finzi, del professor Alfredo Ancora, le teorie diventano storie vere (raccontate nel libro Terapia transculturale per le famiglie migranti di Cattaneo e dal Verme). Come quella di Berenice: 40 anni, intelligente, ma non parla una parola di italiano. Vive qui da anni con il marito e tre figli. Finché arriva una gravidanza, non desiderata, ma accettata. Poi la depressione post partum: “I dottori mi aiutavano – racconta – ma io non capivo cosa mi facevano, mi sentivo terribilmente sola”.
È difficile per gli immigrati chiedere aiuto. Tutto è diverso, a cominciare dall’interpretazione della sofferenza. “In Cina dicono che i disturbi mentali sono come il vento. Non si vedono, non si capisce da dove vengano”, racconta Alfredo Ancora, professore di psichiatria transculturale all’Università di Siena e psichiatra della Asl Roma B. Sahid, 18 anni, parla di ciò che noi chiamiamo panico: “Al mio Paese se stai così male ti portano dal guaritore in contatto con gli spiriti che ti proteggono”. Verrebbe da sorridere, ma Ancora avverte: “Pensate all’effetto che avrebbe su uno straniero la nostra figura dell’angelo custode”.
Già , raccomanda Ancora, “non pensiamo che la nostra cultura sia la migliore. Confrontiamoci senza giudicare”. Così si affronta la terapia. In gruppo: il paziente e gli psicoterapeuti, ma essenziale è il mediatore culturale. Che deve parlare la lingua dell’immigrato, conoscerne la cultura.
UN LAVORO complesso. Ma ecco Liang, sedicenne cinese, che si apre dopo anni di silenzi: “Quando i miei genitori sono venuti in Italia io sono rimasta in Cina con mia nonna, in un villaggio di montagna. Ero felice. Sono venuta a Milano a dodici anni, da sei non vedevo i genitori, non li conoscevo più. Mio fratello non l’avevo mai visto. Andavo a scuola, imparavo l’italiano, ma tacevo. A chi interessava la mia storia? È la prima volta che racconto queste cose, qui di fronte a tante persone”.
Parole diverse, differenti espressioni degli occhi e del sorriso, ma gli stati d’animo sono uguali. Quanti di noi si identificherebbero in Francis, originaria dell’Ecuador: “Ho paura che mia madre muoia senza rivedermi. Quando le ho detto che venivo da mio marito, mi ha risposto che facevo bene, ma lei perdeva il più bel fiore del suo giardino”. Nessuno si era accorto del dolore di Francis. E di quello di Anna e Jussef: “Ci conosciamo da ragazzi. Ma in Italia non riconoscevo più il mio sposo. Mi picchiava”, racconta Anna. E Jussuf, un ottimo padre: “Nel mio Paese quelle non erano considerate violenze”. Sì, Anna e Jussuf è come se si fossero conosciuti due volte. Dopo la terapia si sono ritrovati.
Adesso il professor Ancora sperimenta incontri con immigrati e italiani. Luca, ragazzo delle borgate di Roma, si trova di fronte Mohammed, coetaneo tunisino zoppo. Entrambi affrontano il “male oscuro”. E all’inizio è scontro. Luca urla: “Ci rubate il lavoro”. Ma poi la tensione scompare. Oggi Luca porta a casa Mohammed che non cammina. Alfredo Ancora è convinto: “L’incontro nasce spesso dallo scontro, ma se c’è conflitto meglio tirarlo fuori. E alla fine la sofferenza unisce”.
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