by Editore | 12 Aprile 2011 7:27
ROMA – Per il ministro dell’Interno e Palazzo Chigi si fa notte fonda. Perché a dispetto della telefonata con cui in serata Silvio Berlusconi «rassicura» Roberto Maroni sulla «condivisione della linea assunta in Europa», il vertice in Lussemburgo, nel sigillare di fatto l’emergenza profughi all’interno delle nostre frontiere, promette una immediata reazione a catena tutta di segno domestico. Di più: caccia la Lega e il suo ministro in un angolo. Evaporata la possibilità di “disperdere” oltre la frontiera francese buona parte dei 20 mila, tra clandestini e profughi, che hanno raggiunto il nostro Paese in questi primi quattro mesi dell’anno, si riapre infatti da oggi il redde rationem della «solidarietà nell’accoglienza» tra il Centro-Sud e le grandi Regioni del Nord a trazione leghista: Lombardia, Piemonte, Veneto. E dunque torna a materializzarsi l’incubo elettorale che ha sin qui orientato le scelte del Governo. Per settimane, rassicurati da Maroni e dalla “trovata” dei permessi di soggiorno temporanei che, nell’azzardo di Palazzo Chigi, avrebbero dovuto spalancare le porte dell’area Schengen ad almeno 15 mila cittadini tunisini, Cota (governatore del Piemonte), Zaia (governatore del Veneto), Formigoni (governatore della Lombardia) non sono infatti andati oltre un generico impegno ad «accogliere i soli profughi». Certi che il giorno in cui avrebbero dovuto fare sul serio e misurarsi con la pancia del loro elettorato sarebbe stato lì da venire. Ma, oggi, Franco Gabrielli, capo della Protezione Civile e neo commissario straordinario per l’emergenza profughi, forte dell’accordo siglato la scorsa settimana nella “cabina di regia” Stato-Regioni, presenterà il conto di quell’impegno alla «condivisione dell’emergenza». Ebbene, il conto dice che nel giro di pochi giorni, la Lombardia dovrà mettere a disposizione strutture per ospitare oltre 3.200 tra profughi e clandestini con permesso di soggiorno temporaneo: un terzo in più di Lazio e Campania, una volta e mezza la quota assegnata alla Puglia. Il Piemonte dovrà farsi carico di oltre 1.400 presenze. Il Veneto di 1.600. In un’aritmetica (come mostra la tabella pubblicata in queste pagine) che, a questo punto, non contempla margini di negoziazione e che – a stare al piano di emergenza licenziato dal Viminale – fissa in una proporzione di 1 migrante ogni 1.000 abitanti la soglia massima di accoglienza delle 18 Regioni (l’Abruzzo è escluso) e delle due provincie autonome del nostro Paese. «Per fortuna la matematica e i dati Istat sulla distribuzione della popolazione in Italia non sono opinabili», ripetono in queste ore i tecnici del Viminale e della Protezione Civile. «Se la Lombardia, con i suoi 9 milioni e 800 mila abitanti, conta per il 16 per cento della popolazione italiana, contribuirà all’accoglienza del 16 per cento dei 20 mila tra clandestini e profughi presenti in questo momento sul nostro territorio. E se la Basilicata conta per lo 0,9 per cento, alla Basilicata non si potrà chiedere, al momento, di accogliere più di 200 migranti». Questo significa – aggiungono le stesse fonti – che, di qui ai prossimi giorni, «andranno progressivamente smantellate le tendopoli in Sicilia, in Puglia, in Campania e redistribuito il carico dell’accoglienza sull’intero territorio nazionale, alleggerendo quelle Regioni che oggi contano presenze superiori a quanto stabilito dal piano». Il passaggio promette di essere tutt’altro che politicamente agevole. Cota e Zaia, ieri, si sono precipitati ad accusare l’Unione («Europa scandalosa e vergognosa»), ma si sono guardati bene (al contrario di quanto accaduto per l’intera giornata in Umbria, Emilia Romagna, Basilicata) dal dare alcuna indicazione su numeri e strutture pronte per l’accoglienza, di cui pure, entro oggi, dovranno dare conto al Governo. Non esattamente un buon inizio, pensando che i numeri dell’emergenza, oggi fermi a 20 mila migranti, dovrebbero comunque essere destinati a salire con l’aumento del flusso dei profughi dalla Libia. E che la situazione di Lampedusa e dei respingimenti promette settimane molto complicate. L’isola, ieri, ha cominciato a bruciare dei fuochi dei 1.000 clandestini in attesa di essere rimpatriati. Sono i primi segnali della rivolta. Non saranno gli ultimi. Non fosse altro perché il loro rientro – ammesso e non concesso che dalle coste tunisine non ci siano nuovi arrivi – potrà procedere, secondo gli accordi con Tunisi, a un ritmo di 60 migranti al giorno, sei giorni su sette. E, dunque, non sarà completato prima di venti giorni.
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