by Editore | 23 Aprile 2011 6:08
Si ignorano le degenerazioni tipiche del berlusconismo e si finge di assimilarle a quelle sussistenti nei normali contenziosi politici d’oltre frontiera. Il panorama preferito da questi pittori della domenica nel dipingere i loro affreschi fintamente ingenui è quello che rappresenta gli italiani nella loro essenza fisognomica come tutti eguali, berlusconiani e avversari del premier, distinti solo dal secolare spirito di parte che dai tempi dei Guelfi e dei Ghibellini li ha sempre spinti ad azzannarsi fra loro con quella esasperazione partigiana che sopravanza un pacato esame delle ragioni altrui. Se, invece, analizzassero con fredda oggettività le linee del contendere si accorgerebbero presto che esse passano, come in tutte le altre democrazie occidentali, per attaccamento a valori compatibili, se pur dialetticamente contrapposti, con la destra che predilige la libertà rispetto all’eguaglianza e la sinistra l’eguaglianza rispetto alla libertà . Insomma, saremmo degli inglesi, fieri della loro Westminister, se non fosse per le caldane iraconde da curva sud che ci fan scambiare i mulini a vento del Cavaliere per draghi e guerrieri vogliosi di distruggerci. Se poi a qualcuno sorge il dubbio che le cose non stiano proprio così e che Berlusconi abbia sdoganato e reso più accettabili comportamenti incivili tra il plauso dei suoi fan, basta lasciar da parte con noncuranza il fastidioso problema e rifarsi al solito vizio caratteriale, quella specificità negativa italiana della partigianeria che i politici eccitano, anziché moderare. In ogni caso, insomma, quale chi sia l’interprete, il dramma italiano sarebbe destinato a una eterna replica della disfida tra Capuleti e Montecchi. Tutti si somigliano e tutti si odiano perché tale è il loro destino caratteriale. Dopo di che non resta che acquistare il biglietto, sedersi in poltrona, applaudire o fischiare i commedianti nei quali ci rispecchiamo. Debbo dire che il copione non mi soddisfa e il racconto mi sembra ingannevole. Eppure, data la diffusione che queste idee tendono ad assumere, credo utile contestarne la validità senza veruna indignazione di maniera. Ora, se è una banalità antropologica ricordare che gli italiani dell’una e dell’altra sponda sono tutti italiani e, in quanto tali, hanno molti tratti che li accomunano, va anche ribadito che la scissione che oggi ne divide le azioni e i pensieri non scaturisce da una tara caratteriale che li renderebbe naturalmente impenetrabili alle ragioni comuni ma da una ben individuabile fase della loro storia. Solo analizzando questo aspetto potremmo forse capire le odierne avversioni come le specificità di una situazione non paragonabile a quella delle altre nazioni democratiche e tale da far temere il nostro progressivo scivolamento verso un regime plebiscitario. Per contro, se poniamo al centro la Storia e la Politica, capiremmo assai meglio le cose e ricorderemmo meglio anche un passato non troppo lontano. Mi riferisco al periodo conclusivo del secondo conflitto mondiale, quando con il disastro bellico venne meno il consenso di massa al regime fascista. E poi al cinquantennio che ne seguì, quello della ricostruzione, della Repubblica, della Costituzione, del miracolo economico, dell’adesione all’Alleanza atlantica e al Mercato comune. Infine, il terrorismo. Il periodo si concluse con la caduta del Muro di Berlino e con Tangentopoli. Non si può dire, peraltro, che antropologicamente gli italiani fossero diversi da quelli di oggi né che le avversioni non avessero spazio per esplicitarsi nelle lotte e manifestazioni di piazza, negli scioperi, nelle elezioni, negli scontri parlamentari. Eventi che, per di più, si collocavano in un retroterra internazionale segnato dalla guerra fredda e da schieramenti di campo che vedevano gli uni sodali con l’universo sovietico, gli altri con gli Stati Uniti e il Vaticano. Tutto poteva scoppiare da un momento all’altro, ma non scoppiò mai. Il senso del reciproco limite e la valenza delle leggi e delle istituzioni che avevano assieme costruito fece sì che non solo i capi e i gruppi dirigenti, ma le masse che li seguivano, metabolizzarono un codice non scritto di tolleranza e di civiltà pur nelle fasi di asperrimi contrasti. “Don Camillo e Peppone” fu assai più di una felice serie filmica, quanto un quadro realistico della società nazionale. La proporzionale, i cui difetti si aggravarono nel periodo ultimo della degenerazione partitocratica, permise, peraltro, una rappresentanza anche alle forze minori, laiche, liberali e socialiste che assicurava elasticità e potenziali capacità di mediazione al sistema nel suo assieme. Con l’Ottantanove, con Berlino e Tangentopoli, i partiti storici, fiaccati dal mancato rinnovamento, illusi di poter sopravvivere sulle fortune di un passato stravolto da una svolta radicale della Storia, crollano su loro stessi. Alcuni tentano di riprendere il mare raccogliendosi in una sola scialuppa (il Pd, post cattolico e post comunista). Altri sperimentano strade diverse. Non si può qui analizzare l’evolversi di ognuno. Prendono il potere e vi rimarranno due forze eversive, in quanto mai partecipi alla Storia della nazione, mai attori delle sue fortune e sfortune. L’una, Forza Italia, è un partito-azienda che si identifica col suo padrone e fondatore, l’altra, la Lega, una formazione che si richiama alla Penisola preunitaria e divisa in Stati e staterelli. Un tempo, prima del compiersi del Risorgimento, erano soprannominati austriacanti, papalini o borbonici, a seconda delle origini regionali; oggi si dicon tutti padani. La mancanza di ogni retroterra storico culturale a far da remora, permette a Berlusconi, unico in Europa, di raggiungere la maggioranza unendo tutti, dal Centro all’estrema destra. S’inventa un collante per aggregare il consenso, mai usato da nessun governo. Tutti quelli che lo hanno preceduto, dal liberalismo cavouriano alla destra crispina, dal riformismo giolittiano all’autoritarismo fascista, dalla duplicità costituzional-stalinista togliattiana al cattolicesimo interclassista dc, tutti trasmettevano una pedagogia di valori etici (il patriottismo, il nazionalismo, l’internazionalismo, la solidarietà di classe, i doveri del cittadino o del cattolico e così via). Non sempre, a volta raramente, questi venivano coerentemente applicati ma rappresentavano una tavola dei comportamenti, cui tutti cercavano di apparire adeguati e se la violavano si sforzavano di non farsene accorgere. Per la prima, e speriamo l’ultima volta, nella Storia, il consenso è incassato esaltando ogni tipo di offesa alle virtù civiche, dal vilipendio quotidiano della Giustizia e di chi è chiamato ad esercitarla al dileggio per chi paga le tasse nel paese della massima evasione fiscale («volete vivere sotto la dittatura della polizia tributaria?»), dal vilipendio delle Istituzioni alla proclamata oscenità sessuale e machista. Da ultimo, con l’attacco all’Europa e la minaccia di uscire dall’Unione, le basi tradizionali della nostra politica estera sono messe in forse. I difetti storici – non antropologici – degli italiani, il basso tasso di civismo, il mancato senso dello Stato, il familismo amorale, il sotterfugio delle leggi vengono esaltati come virtù di governo e richiamo fortissimo al consenso. Berlusconi li impersona nella sua personale biografia. Per questo tanti italiani ci si ritrovano e circa altrettanti no.
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