Il sociologo e fondatore del Censis: serve il praticantato

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ROMA – Basta corsi di specializzazione, basta master, basta studiare cose inutili. Serve un Grande piano nazionale per la formazione sul posto di lavoro, finanziato con soldi pubblici, per uscire dalla precarietà  e per riportare i giovani anche al lavoro manuale. Lo dice Giuseppe De Rita, sociologo, fondatore del Censis, che ringrazia la crisi: «Senza di essa oggi non avremmo questa presa di coscienza tremontiana, visto che il fenomeno degli immigrati che prendono i posti degli italiani è iniziato qualche decennio fa». Dunque condivide l’analisi del ministro? Perché si è avviato questo processo di “sostituzione” nel mercato del lavoro? «Nel 1977 il Censis fece la prima ricerca, finanziata dal ministero degli Esteri, sugli immigrati in Italia. E lo dicemmo allora: ci sono lavori che gli italiani lasciano agli immigrati. Sono i panettieri in Lombardia e in Veneto, i fonderisti in Emilia Romagna. Sono i raccoglitori di pomodori nelle pianure e i lavoratori domestici nelle metropoli. Da allora il fenomeno è diventato di massa. C’è stata una divaricazione nel mercato del lavoro: da una parte i nostri giovani hanno imboccato la strada della scolarizzazione progressiva; dall’altra gli immigrati che hanno coperto i buchi lasciati liberi. I nostri giovani sono stati colpiti dalla maledizione/benedizione della scuola. Gli abbiamo detto: investi in istruzione che il lavoro verrà . Abbiamo pompato frequenze e titoli di studio. Colpa della liberalizzazione degli accessi universitari. Colpa del ‘68 ma anche dei ragazzi e delle famiglie per i quali il titolo di studio è simbolo di status». Ma sta dicendo che studiare fa male? «Sì, se si studiano cose che non servono. Abbiamo sacrificato gli istituti tecnici, quando l’Italia si è costruita su di loro. Che ce ne facciamo dei diplomati generici? E dei corsi di laurea che non hanno alcuna ragione d’essere? La strategia della scolarizzazione ad oltranza è la stessa che ha portato i giovani nordafricani alla rivolta per la democrazia. Da noi, però, conduce solo al galleggiamento continuo finché ci saranno i pochi soldi dei nonni e dei padri. Abbiamo costruito un monumento al generico rifiutando ideologicamente la formazione finalizzata al lavoro. Così la ragazza che si è prima diplomata e poi si è presa la laurea triennale in Scienze delle comunicazioni si aspetta il lavoro mentre è destinata alla frustrazione e alla precarietà . Tremonti dice una cosa esatta. Basta girare l’Italia: gli immigrati hanno occupato tutti i posti liberi nel lavoro manuale e molti sono diventati imprenditori, sub-appaltatori. Basta guardare la realtà ». Come si concilia questa analisi con i dati dell’Istat e della Banca d’Italia secondo i quali la prospettiva per i giovani è la disoccupazione o la precarietà ? «Il precario è una persona che ha un tipo di formazione che mal si adatta al lavoro. Ma chi se lo prende un diplomato al liceo classico con una laurea triennale?». Condannati alla precarietà ? Non c’è via d’uscita? «Ci sono due strade: o quella che suggerisce Tremonti, cioè di tornare al lavoro manuale… «. Lo proporrebbe a uno dei suoi figli o dei suoi nipoti? «Io dico che se non vuoi tornare al lavoro manuale devi accettare la formazione sul posto di lavoro. Serve un grande piano nazionale per formare sul lavoro i giovani, servono risorse pubbliche per incentivare i piccoli imprenditori a prendersi i precari e formarli. Il miracolo italiano dal ‘45 al ‘90 l’ha fatto gente che si è formata sul posto di lavoro. Dobbiamo smetterla di parlare di lavoro come un mito irraggiungibile. Il lavoro è questo e non anni di istruzione». Ma la crisi ha peggiorato tutto. «La crisi ci ha imposto un bagno nella realtà ».


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