Il piano-truffa del premier così la scossa all’economia si è trasformata in un bluff

by Editore | 9 Aprile 2011 6:33

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Queste sono altre «partite»: riguardano il potere dell’establishment, non la crescita del Paese. La partita della crescita la stiamo perdendo. Per la semplice ragione che il governo non la sta giocando. «Per tornare a crescere dobbiamo dare una forte scossa all’economia. Forse la più forte che ci sia mai stata». Era il 2 febbraio, e Silvio Berlusconi, in un’intervista al Tg1 delle otto rassicurava così gli italiani, fiaccati da una lunga crisi economica, da una crescita zero del Prodotto lordo, da una disoccupazione giovanile al 30%. Una settimana dopo, il 9 febbraio appunto, ecco l’atteso «elettroshock». Consiglio dei ministri straordinario a Palazzo Chigi, per varare il pacchetto «scossa all’economia». In conferenza stampa, con la parata dei ministri al gran completo e un Tremonti silenzioso (e palesemente conscio dell’effetto-raggiro della messinscena) il presidente del Consiglio annunciava entusiasta: «Siamo a un punto di svolta. Con questa scossa rilanceremo l’economia. Siamo sicuri che ci saranno sviluppi positivi, con un impatto sul Pil dell’1,5%. L’obiettivo è raggiungere una crescita del 3%, e perché no, anche del 4% nel giro di 5 anni». Un trionfo. Salutato con toni celebrativi dall’intero circuito mediatico berlusconiano. Quel mercoledì 9 febbraio, il governo dava il «colpo d’ala» e il premier usciva finalmente dall’angolo, dopo settimane di stillicidio giudiziario con il tribunale di Milano e di quasi suicidio politico dentro la maggioranza. La «scossa» per far ripartire l’economia ruotava intorno a quattro «stimoli». La riforma dell’articolo 41 della Costituzione, per recidere lacci e lacciuoli dello Stato regolatore. Il riordino degli incentivi alle imprese, per renderli veloci e selettivi. Un provvedimento sulla semplificazione, per snellire procedure e adempimenti. Il Piano Sud, rilanciato per la quinta volta in un anno e mezzo. Il Piano Casa, ripresentato per la terza volta dalla vittoria elettorale del 13 aprile 2008. A sessanta giorni esatti dai proclami del premier, il pacchetto si è dissolto nel nulla. Non uno di quei cinque punti spacciati come «rivoluzionari» all’opinione pubblica si è tradotto in norma di legge. Non uno di quei «miracoli» venduti alle parti sociali si è tradotto in atti concreti. Non c’è nulla. Non solo di varato, ma neanche di discusso, alla Presidenza del Consiglio, nei ministeri competenti, in Parlamento, negli enti locali. Nulla. A dispetto delle emergenze degli italiani e delle urgenze delle imprese. L’articolo 41 di Tremonti «È permesso tutto ciò che non è espressamente vietato». Questo era il nuovo «dogma» liberal-liberista, con il quale il governo aveva presentato la riforma dell’articolo 41 di una Costituzione considerata «sovietica» dal premier. Tremonti l’aveva preannunciata da almeno un anno, indicandola come un formidabile propellente per lo spirito d’impresa. Il 9 febbraio il provvedimento viene annunciato dal Consiglio dei ministri. Cambiano tre articoli della Costituzione: non solo il 41 (sulla funzione sociale dell’impresa), ma anche il 97 (con l’introduzione del «merito» nella Pubblica Amministrazione) e il 118 (che si modifica attribuendo allo Stato e agli enti locali il compito di «garantire l’autonoma iniziativa dei cittadini sulla base del principio di sussidiarietà »). Il ministro del Tesoro, che dovrebbe gioire, in conferenza stampa glissa e se ne va quasi subito, per prendere il treno che lo porterà  nel Mezzogiorno insieme a Bonanni e Angeletti, in quello che è stato subito ribattezzato come «il viaggio della speranza». Ma riporre speranze salvifiche nel nuovo articolo 41 è fallace. Intanto perché è una revisione costituzionale, che ai sensi dell’articolo 138 richiede quattro lettura parlamentari e un eventuale referendum confermativo. Poi perché in 63 anni le imprese italiane sono nate e cresciute libere anche senza questa «revisione», di cui si fa fatica a comprendere l’impatto. E infine perché quel testo (rubricato alla Camera come n. 4144) è già  affondato nel mare degli oltre 120 ddl di riforma costituzionale depositati e mai esaminati neanche in commissione. Nonostante questo, durante la conferenza stampa del 9 febbraio il ministro del Welfare Sacconi non risparmia i soliti toni epici: «Questa è una riforma storica». Come tutto quello che da due anni questo governo annuncia. Ma non fa. Gli incentivi alle imprese di Romani Altro ingrediente forte della «scossa», il neo-ministro dello Sviluppo Paolo Romani lo descrive così: «Con questo provvedimento eliminiamo le norme esistenti e riordiniamo gli incentivi in tre categorie: 1) rendiamo più semplice l’accesso agli incentivi automatici; 2) lanciamo nuovi bandi per il finanziamento di programmi organici; 3) snelliamo le procedure negoziali per il finanziamento dei grandi progetti d’investimento». Il testo riscrive «la disciplina della programmazione negoziata e degli incentivi per lo sviluppo del territorio, degli interventi di reindustrializzazione delle aree di crisi, degli incentivi per la ricerca e l’innovazione, di competenza del ministero dello Sviluppo a norma dell’articolo 3 della legge 99 del 23 luglio 2009». Ma c’è un primo problema: come recita il comunicato di Palazzo Chigi del 9 febbraio, il Cdm quel testo non l’ha varato affatto, ma si è limitato ad approvare «lo schema, rinviando ad un apposito decreto legislativo» da esaminare in un successivo Consiglio. C’è un secondo problema: anche quel decreto legislativo non ha mai visto la luce, perché nel frattempo in Parlamento sono scaduti i tempi per esercitare la delega. Quindi si ripartirà  da zero. Se mai si ripartirà . La semplificazione di Calderoli Il terzo movimento della «frustata» incide sul rapporto tra Stato e mercato. Lo spiega ai cronisti il ministro competente, il leghista Roberto Calderoli: «Si tratta di norme semplificatorie che riguardano campi diversi, contratti pubblici, riqualificazione urbana, immobili di interesse culturale, volte a conferire celerità  e snellezza delle procedure». Ma già  dalla lettura del comunicato ufficiale di Palazzo Chigi del 9 febbraio, si capisce che la propaganda sta correndo più veloce della realtà . Anche in questo caso, il Consiglio dei ministri non ha approvato nulla, ma «ha avviato l’esame di un pacchetto di norme», e successivamente «ha rinviato a un tavolo di concertazione tra i numerosi ministri interessati la stesura definitiva del provvedimento, che sarà  successivamente approvato in una prossima seduta». Da allora, non è stato messo in piedi alcun «tavolo», non c’è stata alcuna «stesura definitiva», non è stata convocata nessuna «prossima seduta». Non basta: il 9 marzo, un mese dopo l’annuncio della «scossa», lo stesso Calderoli ferma clamorosamente le macchine: «Il provvedimento sulla semplificazione slitta a dopo Pasqua». La motivazione riflette il caos entropico e la debolezza politica della coalizione forzaleghista: «Serve prima riportare la maggioranza nelle commissioni, a partire dalla Bilancio». Dunque, anche sulla semplificazione nulla di fatto. Se ne riparlerà  a maggio. Salvo ulteriori rinvii. Il Piano Sud di Fitto Che sia un probabile bluff si capisce già  il mercoledì della «scossa». Il Piano Sud era stato presentato e rilanciato già  quattro volte. Ma in conferenza stampa il ministro per le politiche regionali Raffaele Fitto annuncia che entro il primo marzo arriverà  la delibera Cipe e dichiara: «Si conferma l’impianto di novembre 2010, ed entro il 30 aprile sarà  avviato il pacchetto di provvedimenti di attuazione». Il primo marzo è passato, e la delibera Cipe non si è vista, Al 30 aprile mancano tre settimane, ma non si è mossa una foglia. Lo ha ammesso malvolentieri lo stesso ministro, rispondendo in Senato a un parlamentare dell’opposizione: «La situazione è abbastanza preoccupante per le quantità  di risorse rispetto agli obiettivi del piano… Entro marzo, e comunque non oltre aprile, il governo completerà  l’iter approvativo… Quanto al Cipe, è chiaro che il riferimento al primo marzo era per segnare un periodo entro il quale completare questa fase… «. Come dire: è una scadenza buttata lì a caso, ma non conta niente e non vincola nessuno. Infatti la scadenza è passata, e niente è accaduto. Il Piano Casa del Cavaliere È il progetto sul quale il presidente del Consiglio ha dovuto già  innescare due imbarazzanti retromarce. Non pago, il 9 febbraio ci riprova. «Riparte il Piano Casa, in uno dei prossimi Consigli dei ministri vareremo un decreto legge per rimuovere tutti gli ostacoli burocratici». Due mesi dopo, nessun Consiglio dei ministri riunito sul tema, nessun decreto legge varato, nessun ostacolo burocratico rimosso. Il Piano Casa resta una delle peggiori truffe mediatiche di questi ultimi anni. Le Regioni che possono vanno avanti da sole, con misure parziali ed episodiche che aiutano qualche piccola ristrutturazione, ma non danno certo «carburante» alla ripresa. Finora tredici governatori (dal Lazio alla Lombardia, dall’Emilia al Piemonte) hanno varato Piani Casa locali. Da Palazzo Chigi tutto tace. La parabola del «pacchetto scossa» è tutta qui. La più colossale operazione di propaganda politico-economica mai costruita da un governo nella storia repubblicana. La più inquietante «arma di distrazione di massa» mai concepita da una maggioranza occupata soltanto a risolvere i problemi giudiziari del premier. Solo una domanda, cruciale: di fronte a questi imbrogli evidenti e fraudolenti, l’establishment no ha nulla da dire? Dov’è la Confindustria, raggirata sugli incentivi e sulla sburocratizzazione? Dove sono Cisl e Uil, ingannate sul fisco e sul Mezzogiorno? In attesa di risposte, non resta che aspettare il 12 aprile: entro martedì prossimo, Tremonti dovrà  consegnare alla Ue il nostro Piano Nazionale di Riforme. Sarà  il momento della verità . A Roma puoi anche barare, a Bruxelles non te lo permettono.

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