Il paradigma dell’accoglienza

by Editore | 16 Aprile 2011 6:37

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Ne parlo mentre nelMediterraneo continuano a vagare barconi carichi di profughi e aspiranti immigrati e nelmondo politico e giornalistico si alzano e si sovrappongono fra loro, in una angosciante cacofonia, slogan razzistici, espressioni di odio e paura, echi abbastanza isterici dei libri di Oriana Fallaci. Anche i due concetti di integrazione e assimilazione vengono usati spesso senza troppe distinzioni, come se fossero più o meno la stessa cosa. Ame pare che essi rappresentino due modi diversi di affrontare il problema dell’accoglienza in una nazione moderna e nell’ambiente culturale in essa dominante. Se in quella nazione prevalgono i temi dell’identità  e dell’attaccamento alle proprie radici, producendo una coscienza nazionale chiusa e ristretta, l’unica possibilità  per chi vi entra provenendo da un’altra cultura è una più o meno rapida assimilazione, un abbandono più o meno doloroso della propria cultura e un’assunzione più omeno entusiastica della cultura dominante (a volte con una vera e dolorosa deformazione: l’assimilazione totale, volonterosa ed entusastica). Se invece in quella nazione o Stato la convivenza civile è basata non su identità  etniche (o addirittura tribali),masu una comune, volontaria e paritaria aderenza ai principi costituzionali, sull’accettazione condivisa dei processi democratici e delle formemoderne della solidarietà  e della legalità , allora il processo di integrazione fra le culture delle varie comunità  di cittadini, per quanto diverse fra loro, potrà  avvenire gradualmente e senza conflitto, con la convinta accettazione del tasso di arricchimento che il confronto fra le culture può arrecare a una società  aperta emulticulturale. Due esempi emblematici Per illustrare il dilemma fra identità  e appartenenza ho usato, nello scorso articolo, l’esempio della Svizzera, per illustrare quello fra assimilazione e integrazione userò i casi, fra loro diversi, degli Stati Uniti e del Canada. Sono due grandi paesi, nati dopo una violenta e colpevole eliminazione delle culture locali da parte dei nuovi venuti, conquistatori e colonizzatori provenienti dall’Inghilterra, dalla Francia, da altri paesi europei, che tuttavia hanno attuato, nell’epoca successiva alla colonizzazione, due politiche diverse: gli Stati Uniti quella dell’assimilazione (il melting pot), il Canada quella dell’integrazione. Certo gli Stati Uniti hanno, rispetto a questo problema, una storia lunga e complessa, non priva di momenti drammatici (la guerra civile 1861-65), di contraddizioni, battaglie durissime per i diritti civili, nobili discorsi sui problemi dei rapporti razziali e culturali, da Martin Luther King (discorso «I have a dream», Washington il 28 agosto 1963) a Barack Obama (discorso «A more perfect Union», Filadelfia, 18 marzo 2008). E tuttavia la pratica dell’assimilazione è rimasta il programma ufficiale della politica americana, paradossalmente confermato dalla persistenza, dentro un processo esteso di assimilazione, di forze ed enclaves di resistenza (le comunità  spesso chiuse e ghettizzate di cinesi, coreani, portoricani, ispanici e altri gruppi non assimilati) e di invisibili confini che circondano spesso quelle comunità . Obama nel discorso di Filadelfia, dimarca illuministica, ha ricordato che la Costituzione americana ha alla base il principio della totale uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. Dopo aver raccontato le sue complesse origini – hawaiane, indonesiane, africane, americane – ha ribadito, in forma solenne, il principio del melting pot: «è una storia che ha stampato nel mio patrimonio genetico l’idea che questa nazione è più della somma delle sue parti – che, da un paese di molti, noi siamo veramente uno».Ha aggiunto: «noi perfezioniamola nostra unione se capiamo che possiamo avere storie diverse, ma nutriamo speranze comuni; che possiamo avere tratti diversi e non essere qui arrivati dallo stesso luogo, ma tutti vogliamo muoverci nella stessa direzione – verso un futuro migliore per i nostri figli e nipoti». Nel libro autobiografico Dreams from my father (2004, traduzione italiana edita da Nutrimenti, 2007), raccontando il viaggio fatto in Kenya, paese del padre, nel 1987, Obama raccontò di essere andato in Africa pensando di poter unire con un atto di forza i suoimolti mondi in un’unica totalità  armoniosa, ma si è subito scontrato con grosse difficoltà . La sorella Auma ha dimostrato di averemolti pregiudizi verso gli stranieri di origine asiatica immigrati a Nairobi e anche verso i kenyoti divisi fra loro in più di quaranta tribù («I Luo sono intelligenti ma pigri», «I Kikuyu sono avidi di denaro ma laboriosi», ecc.) Obama ha cercato di far passare l’idea che il tribalismo è la causa dell’arretratezza africana, che in realtà  «Siamo tutti membri della stessa tribù. La tribù nera. La tribù umana». Con scarsissimo successo e tirandosi addosso l’accusa di ingenuità  e idealismo. Una rivendicazione limitata Obama non fa grande distinzione fra integrazione e assimilazione, e assume come punto di vista la rivendicazione della pari dignità  degli afro-americani con tutti gli altri cittadini, assimilati in un’unica unità  multiculturale, che minaccia di diventare monoculturale (l’individualismo americano). In Dreams from my father, discute con una ragazza nera dalle origini altrettanto miste delle sue, e ha uno sfogo contro quegli americani che ancora sono incapaci di accettare fra di loro, alla pari, gli afro-americani: «Parlano della ricchezza della loro eredità  multiculturale e sembra una cosa buona, finché non ti accorgi che evitano la gente nera. Non è una questione di scelta consapevole, necessariamente, solo una faccenda di forza gravitazionale: l’integrazione ha sempre funzionato così, una strada a senso unico. La minoranza assimilata dentro la cultura dominante, non il contrario. Solo la cultura dei bianchi può credersi neutrale e oggettiva. Solo la cultura dei bianchi può sentirsi non razzista e accogliere di tanto in tanto qualche persona di origine esotica. Solo la cultura dei bianchi ha gli individui». L’altra voce che vorrei far sentire, accanto a quella di Obama, è quella del canadese Michael Ignatieff: un intellettuale che ha scritto molti libri (tradotti anche in italiano), ma anche il principale candidato dell’opposizione progressista (partito liberale) canadese, che sfiderà  il prossimo 2maggio in elezioni anticipate il governo di minoranza del primo ministro conservatore Stephen Harper, senza peraltro troppe probabilità  di successo. Non èmolto comune nei nostri tempi che a guidare un grande partito politico e aspirare a governare un grande paese sia uno studioso di politica. Ignatieff, peraltro, ha una storia abbastanza complicata: nato a Toronto nel 1947, figlio di un immigrato russo che aveva fatto una brillante carriera diplomatica, il giovane Ignatiev si è formato all’università  di Toronto e in altre scuole di mezzo mondo e si è segnalato non solo per la sua intelligenza e la sua conoscenza delle lingue, ma anche per le sue doti di buon calciatore.Ha continuato gli studi storici a Oxford, dove è stato allievo di Isaiah Berlin (e più tardi ha scritto di lui), Harvard, Cambridge. Come professore si è mosso fra Canada, Inghilterra e Stati Uniti. Come giornalista ha scritto per il «Globe and Mail» di Toronto e per il «New York Times», e ha condotto fortunate trasmissioni radiofoniche e televisive.Dal 2000 al 2005 ha diretto un centro di difesa dei diritti umani a Harvard. Nel 2006 è rientrato a Toronto, come professore e deputato al parlamento. Moderatamente progressista, ma anche uomo della Realpolitik, si è fatto sostenitore della politica statunitense nelmondo (un imperialismo buono e a fin di bene, secondo lui) e si è molto impegnato a favore degli interventismi militari «per scopi umanitari» (in Kosovo e più di recente in Iraq). Dopo aver sostenuto la politica di Bush, si è clamorosamente smarcato, con un lungo articolo nel «New York Times Magazine» del 5 agosto 2007, che cominciava così: «La catastrofe che si è realizzata in Iraq ha condannato irrimediabilmente la saggezza politica di un presidente. Ma ha anche condannato la saggezza di molti altri, io stesso incluso, che come commentatori abbiamo appoggiato l’invasione». Quello che mi interessa qui sottolineare è il contributo dato da Ignatieff alla concezione, tradizionale nella politica canadese e storicamente contrapposta a quella staunistense, in favore dell’integrazione culturale. Toronto, da questo punto di vista, è una città  esemplare, dialetticamente contrapposta all’altra città  che si affaccia su un altro dei Grandi laghi, la statunitense Chicago (l’una, città  di pacifica convivenza e integrazione fra molte culture, dove il servizio telefonico per le emergenze offre assistenza in centosettanta lingue; l’altra, città  dei ghetti, degli scontri razziali, delle guerre fra gang di giovani violenti). In numerosi libri e saggi Ignatieff, ispirandosi all’esperienza canadese, ma analizzando in profondità  quella di molti altri paesi, prende una posizione netta in favore dell’integrazione (che lui a volte chiama convergenza etnica e l’antropologo cubano Fernando Ortiz ha chiamato transculturacià³n), e contro l’assimilazione (o omogenizzazione) etnica e culturale. Tappe di un viaggio identitario In un libro pubblicato nel 1993, scritto in concomitanza con un documentario televisivo per la Bbc, intitolato Blood and Belonging: Journeys into the New Nationalism¸ Ignatieff ha raccontato un viaggio in sei paesi, tutti coinvolti in processi di costruzione nazionale, scontri etnici, conflitti sanguinosi, forme di integrazione ed eccessi nazionalistici. Il nazionalismo – dimostra – è tutt’altro che liquidato, sta anzi risorgendo in molti paesi e provocando oltre che fenomeni di identità  e appartenenza, odi e guerre spietate. La prima tappa del viaggio conduce Ignatieff nella ex-Jugoslavia, dove i nazionalismi serbo e croato forniscono il supporto ideologico (tramite una immaginaria identità  etnica) alla costruzione di due nuovi Stati balcanici, ma produce anche un conflitto bellico devastante. La seconda tappa lo porta nella nuova Germania riunita e analizza la situazione in cui due popoli, che hanno un’identità  etnica comune, dopo essere stati separati per quasi cinquant’anni e aver coltivato concezioni del mondo, ideologie e identità  nazionali diverse, ora si trovano a dover scegliere fra un «nazionalismo civico» (quello auspicato da Habermas) e un nazionalismo etnico e patriottico, che nel passato ha provocato disastri e, peggio, un nazionalismo virulento come quello dei gruppi neo-nazisti.

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