Generazioni perdute
Anche perché (e forse tra i due fenomeni c’e una relazione) ai posti che si dicono di responsabilità — cioè nei posti che contano — si arriva, bene che vada, tra i 50 e i 60 anni, e ci si resta per decenni. Tutta la classe dirigente italiana è organizzata in un sistema di compatte oligarchie di anziani che per conservare e accrescere i propri privilegi sono decisi a sbarrare l’ingresso a chiunque. A cominciare dal capitalismo industriale finanziario il quale, almeno in teoria, dovrebbe essere il settore più dinamico e innovativo della società , ma dove invece i Consigli d’amministrazione assomigliano quasi sempre a un club esclusivo di maschi anziani. Anche il sistema politico e i partiti non scherzano. I leader più importanti non solo stanno in politica da almeno tre o quattro decenni, ma in media è da almeno 20-25 anni che occupano posizioni di vertice. La muraglia invalicabile dietro la quale prospera la gerontocrazia italiana ha un nome preciso: l’ostracismo alla competizione e al merito. In Italia il sapere e il saper fare contano pochissimo. Moltissimo invece contano le amicizie, il tessuto di relazioni, l’onnipresente famiglia, e soprattutto l’assicurazione implicita di non dar fastidio, di aspettare il proprio turno, di rispettare gli equilibri consolidati: vale a dire ciò che fanno o decidono i vecchi. È così che l’Italia sta mandando letteralmente al macero una generazione dopo l’altra. Ma non tutti si rassegnano a subire la frustrazione di dover passare i migliori anni della propria vita ad arrancare dietro un posto di seconda fila, precario e mal pagato. A partire almeno dagli Anni 90, infatti, decine di migliaia di giovani, donne e uomini, hanno trovato modo di lasciare la Penisola e di ottenere un lavoro fuori dai nostri confini. Non è vero che l’emigrazione italiana è finita. Certo, ora non sono più le «braccia» , sono i «cervelli» ; ma la sostanza del fenomeno non cambia. Sono giovani di talento che per avere un futuro hanno dovuto andarsene dal Paese. E che nelle università , negli uffici finanziari, nelle case di commercio, nelle banche, nei centri di ricerca, negli ospedali, nelle imprese industriali di mezzo mondo, mostrano come il nostro sistema d’istruzione, pur con i centomila difetti che sappiamo, sia tuttavia ancora capace di produrre una formazione d’eccellenza. Sono giovani di talento che fuori d’Italia hanno avuto modo di farsi apprezzare, di costruirsi carriere e posizioni spesso di rilievo. È un’emigrazione di qualità , insomma. Ma è anche un’emigrazione che non dimentica, non riesce a dimenticare, il proprio Paese. Un’emigrazione che per mille segni mostra quanta voglia avrebbe di poter essere utile all’Italia. Che senso ha allora, mi chiedo, che un’Italia di vecchi, un Paese disperatamente in declino, non pensi a ricorrere in qualche modo a questa riserva collaudata di energia e di competenze? Stabilizzare centinaia di migliaia di lavoratori precari è un obiettivo sacrosanto ma è certamente un obiettivo non facile. Richiede interventi economici e giuridici complessi. Ci si deve assolutamente provare, ma ciò non toglie che allo stesso tempo non si possano anche studiare procedure di favore e incentivi allo scopo di immettere un certo numero di italiani di talento che si trovano oggi all’estero, per esempio in posizioni medio-alte della Pubblica amministrazione, degli Enti locali, delle Asl. Nelle Università qualcosa del genere si è tentato ma è naufragato per le inevitabili resistenze corporative. Il che dimostra che ciò che soprattutto servirebbe per muoversi nella direzione ora detta sarebbe un impulso forte e coordinato dal centro. Cioè un’iniziativa politica che desse il segnale che il Paese vuole cambiare rotta, farla finita con abitudini che ci soffocano, prendere con coraggio strade nuove, muoversi finalmente con immaginazione senza lasciarsi frenare dal burocratismo, dalle vecchie oligarchie, dal passato. Conosco l’obiezione: e cioè che per fare tutto questo ci vorrebbe una vera leadership politica, un governo. È proprio così: ci vorrebbe un governo
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