Finirà  nel ridicolo il regime televisivo?

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Un fenomeno politico, sociale e perfino culturale, destinato a finire prima o poi nel ridicolo. Insomma, una caricatura. Si può essere di destra, di centro o di sinistra, ma a questo punto è difficile negare che oggi la politica italiana va assumendo le caratteristiche scenografiche di un cabaret. Quando senti l’insuperabile Maurizio Crozza o qualcun altro che imita in tv o alla radio Berlusconi o magari La Russa, si fa sempre più fatica a distinguere l’imitatore dall’originale. E viceversa, quando vedi e senti parlare il premier o il ministro, ti viene istintivamente da ridere come se si trattasse della loro più riuscita imitazione. Se la direzione generale della Rai è costretta a ritirare un piano di nomine appena proposto, ispirato in realtà  da una logica puramente spartitoria, vuol dire che lo stesso regime televisivo non si riconosce più nella propria sicurezza e prepotenza. E allora vacilla. Senza nulla togliere ai meriti del sindacato interno dei giornalisti e all’impegno dei consiglieri d’opposizione, assistiamo così a un “Masi contro Masi” che assomiglia irreparabilmente a una comica finale. Se l’Autorità  di garanzia nelle Comunicazioni si sente in diritto e dovere di ribadire che la “par condicio” vale solo per le tribune politiche e, sulla base di questa pronuncia, la presidenza della Commissione parlamentare di Vigilanza osa dichiarare inammissibile lo stop ai talk show della Rai in campagna elettorale, tutto ciò significa che la maggioranza di centrodestra ha perso il senso della misura. Anzi, il buon senso comune. Siamo, appunto, alla farsa: genere teatrale che –recita il vocabolario – è basato su una comicità  buffonesca ovvero, in senso figurato, situazione da non prendere neppure sul serio, insensata e ridicola. L’assalto continuo, sistematico, recidivo al servizio pubblico televisivo non è che il riflesso condizionato di una pulsione predatoria che appartiene agli “animal spirits” del berlusconismo, fa parte del suo dna, del suo patrimonio genetico. È come se il premier-tycoon, affetto da un inguaribile complesso freudiano, non riuscisse a tollerare l’idea che possa esistere un’altra televisione, diversa dalle reti di sua proprietà . E in preda a un delirio di onnipotenza, dicesse al popolo dei teledipendenti: “Non avrai altra tv fuori di me”. Eppure, lo vediamo ogni giorno e ogni sera che cosa raccontano i “suoi” telegiornali: quelli di Mediaset e quello principale della Rai, affidato in custodia alle cure di Augusto Minzolini. Né possiamo dimenticare, senza riaprire ora polemiche retrospettive, che cosa raccontavano i tg del Biscione alla vigilia delle elezioni che riportarono Berlusconi l’ultima volta a palazzo Chigi (e speriamo davvero che sia l’ultima in assoluto). Cronaca nera, criminalità , violenza, per alimentare un clima di allarme e di emergenza, smentito poi dai dati ufficiali sul numero dei reati commessi durante il precedente governo Prodi. È proprio sulle macerie del regime televisivo, però, che bisognerebbe ricostruire la casa comune di una “democrazia compiuta”, per ripristinare le condizioni minime del confronto e della competizione elettorale, della governabilità  e dell’alternanza. In fondo, basterebbe poco: una nuova legge sul conflitto d’interessi e una nuova legge elettorale. Sono i due pilastri portanti su cui si può poggiare la rifondazione del Paese. Poi viene la riforma della Rai. Ma qui il problema non è il direttore generale, Mauro Masi o chiunque altro. Il problema vero è la “governance” dell’azienda, il suo assetto di controllo e di comando. Una Rai che non sia più per nessuno “un avamposto politico da conquistare immediatamente”, come dice Italo Bocchino nella citazione iniziale tratta dal suo libro, rievocando i fasti dell’anno di grazia 1994.


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