by Editore | 22 Aprile 2011 6:46
TORINO – «Una tappa storica per Fiat e Chrysler, per noi motivo di orgoglio e soddisfazione». Il presidente del Lingotto, John Elkann, prova ancora una volta a sfuggire al tormentone sul trasferimento della sede Fiat da Torino a Detroit che, col passare dei giorni, va assumendo sempre di più i contorni di una mossa scontata, scritta a chiare lettere negli accordi come quello di ieri. Al punto da non essere neppure smentita dal Lingotto che, al massimo, la ricolloca nel tempo, senza escluderla ma provando solo a spiegarla diversamente rispetto alla versione corrente a Torino e in Italia. Come dire che, in un’economia globalizzata, non c’è niente di strano se un colosso industriale strutturato in blocchi continentali – Europa, America, Asia – è governato da una plancia di comando diversa da quella del passato. «Nel corso degli ultimi anni Fiat e Chrysler hanno saputo lavorare fianco a fianco, con rispetto reciproco» commenta il presidente Elkann, spiegando che questo spirito di collaborazione, che diventerà ancora più forte con l’accordo di ieri, è stato possibile grazie al contributo di quanti lavorano in Fiat e al sostegno che lui e la sua famiglia hanno dato a Marchionne dal 2004 a oggi, anche in termini finanziari. Un messaggio che va interpretato come un disco verde dell’azionista di controllo Fiat alle scelte che Marchionne si appresta a fare andando verso l’ormai più che annunciata fusione Torino-Detroit. Sarà infatti questa l’ultima e la più importante tappa che di un processo che ieri ha aggiunto un nuovo capitolo definito da John Elkann «la più grande soddisfazione professionale da quando lavoro». A questo punto sembra del tutto acquisito il fatto che gli Agnelli abbiano messo in conto la diluizione della loro quota nella nuova società . Il presidente di Fiat lo ha anche più volte ammesso, spiegando che non è un problema dal momento che in quel caso si finirà per avere una quota ridotta rispetto al 30 per cento di oggi ma in una società il cui valore sarà più del doppio rispetto a quello dell’attuale Fiat. Un’operazione che per gli eredi dell’Avvocato sembra compensare ampiamente il «sacrificio» della perdita della storica centralità torinese che, in sintonia con Marchionne, loro preferiscono leggere come un bilanciamento tra Italia e Stati Uniti da parte di un gruppo egualmente attivo nei due Paesi. Non c’è ancora una data per questo passaggio finale, ma se si deve misurare il percorso col metro delle accelerazioni impresse da Marchionne forse non si dovrà aspettare molto. E a quel punto si capirà meglio anche il ruolo che avrà lo stratega sinora in condominio tra Torino e Auburn Hills. Time lo ha collocato tra le cento persone più influenti del mondo e anche questo, ma non solo, potrebbe far pensare a una sua posizione nuova, per così dire meno manageriale e più da azionista. Se ne parla da tempo ma sinora senza riscontro anche perché lui non ha mai incoraggiato l’ipotesi di un’aspirazione del genere. Che, a giudicare da quanto si è visto negli ultimi vent’anni, è stata la tentazione di più di un suo predecessore. Marchionne ora ha come obiettivo il 51 per cento di Chrysler e lo vuole raggiungere, come ha ripetuto ieri, entro quest’anno. E’ convinto che avrebbe «poco senso» non integrare le attività di Fiat e Chrysler e che «l’integrazione a livello operativo è più importante di quella legale». La mette giù in termini tecnici con un’insistenza che enfatizza il suo ruolo di manager e fa passare in secondo piano l’ipotesi ventilata da qualche parte di un utilizzo delle stock option in suo possesso nella conquista del controllo di Chrysler. Forse perché più e meglio di altri egli sa che le stok option, peraltro mai esercitate, possono valere meno di un risultato che lui può conseguire per altre strade.
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