E ora entrano in campo le tribù l’ultima speranza del Colonnello
Da noi umori ormai prevalenti. Che noia! L’esclamazione è ormai un brontolio corale. In Libia quel Gheddafi, dato per sconfitto pochi giorni dopo l’insurrezione di febbraio, a Bengasi, è sempre là , al sicuro, nel suo bunker tripolino. Insomma chi vince e chi perde? E intanto in Tunisia e in Egitto non sono ancora stati eletti parlamenti tipo Westminster. Nelle capitali occidentali la resistenza del Colonnello libico innervosisce, suscita polemiche; e nelle rispettive opinioni pubbliche, la lentezza dei processi politici in Tunisia e in Egitto, alimenta la vecchia convinzione sulla scarsa “inclinazione alla democrazia” dei popoli arabi. La rapidità , marchio della nostra epoca, ci ha frastornati, intontiti, al punto da rallentare la nostra capacità di analisi. Gli odierni tempi mediatici, quelli dell’informazione quasi simultanea agli avvenimenti, ci fanno apparire un’eternità il mese trascorso dall’inizio degli interventi aerei in Libia. L’impazienza ci fa dimenticare: 1°) che la democrazia è arrivata in non pochi paesi occidentali dopo una guerra mondiale di cinque anni e decine di milioni di morti; 2°) che i parlamenti nei paesi arabi in questione non saranno copie conformi di quello di Westminster. (Montecitorio, nei nostri giorni, più di sessant’anni dopo la proclamazione della Repubblica italiana, è ancora distante da quel modello). Dunque pazienza? No, basta un po’ di giudizio nell’osservare i fatti. Le rivolte contro i raìs sono tutt’altro che concluse. La repressione in Siria è in questi giorni la prova di quanto la conquista araba delle libertà individuali sia incompiuta, e ancora carica di sangue. È una rivoluzione destinata a conoscere contro-rivoluzioni e restaurazioni. Svolte radicali e riformiste. Non poche monarchie, più immobili che stabili, conoscono fermenti tra l’Atlantico e il Mar Rosso. Le situazioni cambiano di paese in paese. Denominatore comune è il passaggio dalla proclamata, ansiosa fedeltà alla “comunità dei credenti” (l’Islam), o dall’istinto nazionalista, all’esigenza di libertà individuali. Dunque un riflesso laico. Muhammar Gheddafi, dopo quarant’anni di potere, ha lasciato in Libia soltanto tracce della vecchia società tribale, frantumata dall’insediamento nelle città di popolazioni disperse da tempo immemorabile nei villaggi della costa o negli accampamenti del deserto. A mischiare le comunità ha contribuito la pioggia dei proventi del petrolio. I quali hanno creato interessi economici spesso più forti dei confini tribali. Quei proventi, stretto monopolio del raìs, sono serviti nel corso dei decenni a premiare alleati e complici e a frustrare o isolare potenziali avversari. Nessuna traccia di una società politica o di una società civile. L’inurbamento non ha comunque cancellato del tutto l’identità tribale, sia pure adeguata al contesto economico, per molti aspetti moderno. E le sopravvissute identità tribali hanno avuto il ruolo che in altri paesi hanno le classi sociali o le affiliazioni politiche. Misurata, terza città della Libia, è il centro (la “patria”) di una tribù che ha da sempre conservato una tenace avversione, caldamente ricambiata, per la non lontana tribù, insediata nella Sirte, cui appartiene Gheddafi, e per l’assai più grande tribù dei Warfalla. Quest’ultima è la più numerosa in Libia, ed anche la più intraprendente. Conta non pochi diplomatici, uomini d’affari, alti funzionari ed è presente nell’esercito. Alimenta “l’esercito popolare”, composto di milizie definite “volontarie”. L’antica tenzone tra la tribù di Misurata e le tribù di Gheddafi e degli alleati Warfalla contribuisce a spiegare la tenace, coraggiosa resistenza della città all’esercito governativo, espressione dei nemici tradizionali. Quest’ultimo, l’esercito leale a Gheddafi, secondo il vice ministro degli Esteri di Tripoli dovrebbe ritirarsi da Misurata lasciando alle tribù il compito di negoziare con gli insorti, e nel caso le trattative non fossero possibili, di rilanciare l’azione armata. I ribelli, a Bengasi, cantano vittoria. Misurata è liberata. Ma l’annuncio di Tripoli nasconde un’insidia. Gheddafi ha cambiato tattica. L’intervento aereo della Nato (potenziato nelle ultime ore dai Predator, i droni, gli aerei Usa senza pilota), hanno ridotto di più di un terzo la capacità dell’esercito lealista. Lo sostiene l’ammiraglio Mike Mullen, capo dello Stato maggiore americano, il quale aggiunge tuttavia che questo risultato non è ancora decisivo per l’esito del conflitto. Non potendo più muovere i mezzi blindati, troppo vulnerabili agli attacchi aerei, i gheddafisti usano da ormai un paio di settimane camionette Toyota, simili a quelle degli insorti, che le hanno dotate di mitragliatrici e lanciarazzi. Cosi gli aerei della Nato possono confonderle. Della nuova tattica fa parte non tanto la mobilitazione di uomini provenienti dalle tribù, quanto l’annuncio chiaramente propagandistico del loro intervento. Le milizie dell'”esercito popolare”, alimentato dalle tribù alleate, sono infatti sul campo da un pezzo. La novità consiste nel presentarli come civili sui quali gli aerei della Nato non possono infierire. “Civili” sono probabilmente quelli che si battono ancora a Misurata, dove ieri si continuava a sparare e a morire. Si ripete che in Libia prevale una situazione di stallo. Sulla strada del litorale è come un’altalena. Tra la città di Ajdabiya e Brega, a circa duecento chilometri da Bengasi, e a un migliaio da Tripoli, lealisti e ribelli avanzano e arretrano a turno. Trattenuti dalle incursioni aeree della Nato, ma meglio addestrati, i primi, gli uomini di Gheddafi, non riescono ad avvicinarsi a Bengasi. Cosi come i ribelli, finora scarsamente armati e disorganizzati, non potranno mai raggiungere Tripoli. I ribelli controllano tuttavia la Cirenaica, larga parte della zona petrolifera, e sono adesso governati da comitati popolari spesso inefficaci, ma più rispettabili e rappresentativi di un regime corrotto e autoritario, oltre che criminale. La presenza di Al Qaeda nei ranghi della rivolta è un fantasma usato dalla propaganda ostile, o creato dai pregiudizi occidentali. Come nei paesi vicini ci sono gruppi salafisti e jiadisti. La rivoluzione libica è tuttavia un movimento popolare estraneo ai richiami islamisti. E il tempo, anche se ci sembra troppo lungo, gioca in suo favore. Quella militare è una situazione di stallo destinata ad appesantirsi per Gheddafi. E comunque non è in stallo quella politica. Bengasi è sempre più riconosciuta dal resto del mondo, mentre Gheddafi è isolato. Non ha vie di scampo. E può contare unicamente sul suo esercito, ancora efficiente, e sulle tribù che, dandolo per sconfitto, potrebbero un giorno abbandonarlo.
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