Duemila siriani fuggiti in Libano «Il fuoco dei tank ci inseguiva»

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Ora il suo salotto è affollato di bimbi urlanti e donne velate come l’ingresso di un asilo. «Non c’entra la politica, non mi interessa quello che succede o non succede in Siria— si giustifica subito per l’antica paura delle proprie opinioni —. Diamo solo una mano a dei vicini in difficoltà » . Wadi Khaled è uno dei valichi di confine tra Siria e Libano a tre ore di auto da Beirut e di più da Damasco. È un paesino sul fiume con un commercio tarato sui magri portafogli siriani: coperte con principesse Disney e teiere dorate «made in China» . A guardar bene, però, si capisce che si tratta di un’unica cittadina tagliata in due da un fiume promosso a confine dagli europei negli anni 20: sulla sponda di Wadi Khaled è Libano, sulla sponda di Tal Kalakh è Siria. Ma anche se cambia il passaporto qui sono tutti sunniti, più o meno parenti. Secondo il sindaco libanese saranno almeno 2.500 le donne e i bambini siriani scappati in un solo giorno. Daad, madre di tre bimbi, ospite di Ahmed, è teatrale nella sua disperazione. «Sono venuti con i carri armati, cosa potevamo fare? L’esercito spara, cerca gli uomini. Abbiamo portato i bambini al sicuro» . Perché? Daad non lo vuol dire. Paura, sempre paura di orecchie capaci di punire per un’opinione di troppo. In Libano, radio e tv anti-siriane fanno intendere che potrebbe trattarsi dell’avanguardia di una fuga di massa dalla Siria in fiamme, che il Libano è in pericolo tanto che l’esercito al Nord è in stato di allerta. Accusano il ministro degli Esteri, Ali Chami, di aver ordinato al rappresentante di Beirut all’Onu il voto contro la mozione di condanna alla Siria. «È anticostituzionale che un singolo ministro decida la politica estera nazionale» . Le fazioni libanesi sono pronte a spaccarsi e la Siria a trascinare nel suo stesso caos il Libano vassallo accusando parlamentari di Beirut di fornire armi ai «terroristi salafiti» . È una delle ragioni per cui la comunità  internazionale fatica a prendere una posizione determinata sulla repressione siriana. L’effetto domino sarebbe incontrollabile. Almeno nel caso della fuga oltre frontiera, però, la tv del presidente Assad fornisce una spiegazione che pare plausibile. «A Tal Kalakh agiscono bande di contrabbandieri. Bucano l’oleodotto e vendono il petrolio in Libano. Bisognava intervenire» . Se servono i carri armati per una banale operazione anticontrabbando significa che ormai la Siria ha perso ogni freno nell’uso della forza. Soprattutto se si tratta di sunniti, lontani come i curdi, dal cuore alawita del regime di presidenza ereditaria degli Assad. Nella città  di Deraa, dove il 15 marzo è cominciata la protesta, da una settimana il cordone militare ha tagliato acqua ed elettricità . Le notizie escono senza verifica. Il regime di Damasco parla del massiccio intervento come di una protezione chiesta dai civili contro i terroristi filo Al Qaeda. L’opposizione dipinge invece un quadro da Sarajevo anni 90 con i cecchini sui tetti che sparano a chi cerca cibo per strada e cannonate sulle case. Parla però anche di soldati di leva fucilati per aver rifiutato di attaccare i civili. O di 200 membri del partito Baath che, sempre a Deraa, avrebbero stracciato la tessera. E non importa se gli iscritti superano, in tutta la Siria, il milione. Sono pur sempre crepe, segni di debolezza del regime, una speranza per chi ha osato alzare la testa e, in sette settimane, ha già  contato 500 cadaveri. Internet da doppino telefonico potrebbe non bastare alla «primavera siriana» . E neppure le parabole. Al Jazeera, la tv satellitare del Qatar (sunnita), ha annunciato la riduzione della copertura in Siria a causa delle continue minacce. Senza testimoni, cittadini o giornalisti, la Siria rimane un buco nero che ognuno riempie con le paure e i pregiudizi che più fanno gioco alla propria politica.


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