Debito Usa, prima bocciatura S&P: senza misure sarete declassati e scoppia il caso dei titoli greci

by Editore | 19 Aprile 2011 7:10

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NEW YORK – Lo spettro della bancarotta si aggira sullo stato più ricco del mondo e la clamorosa bocciatura del debito degli Stati Uniti – quasi 15mila miliardi di dollari – provoca un mezzo cataclisma nelle Borse di tutto il mondo. La notizia gela Wall Street nelle prime ore di apertura. Una delle più importanti agenzie di rating declassa l’America di Barack Obama. Per gli esperti di Standard & Poor’s gli Usa meritano ancora la tripla A: il voto massimo. Ma solo per ora. Le previsioni sul futuro dell’economia sono nere: l’outlook passa da stabile a negativo. La doccia fredda scuote Wall Street che sfiora il 2 per cento delle perdite prima di una timida ripresa. La Casa Bianca reagisce a mercati ancora aperti e parla di “errato giudizio politico”. Poi cerca di cogliere la palla al balzo: la politica – dice il portavoce di Obama, Jay Carney – saprà  reagire all’impasse. La botta insomma potrebbe essere proprio l’occasione per stringere sull’accordo. Ma per ora la sonora bocciatura si riverbera sui mercati mondiali. A partire dall’Europa dove la notizia piomba dopo una mattinata già  vissuta pericolosamente per le preoccupazioni sull’insolvenza dei Pigs. Le voci sulla ristrutturazione del debito greco – con la corsa ai titoli di stato di Atene – fanno tremare il continente: le Borse perdono intorno al 2 per cento. E non è un buon segno l’affermazione dei nazionalisti in Finlandia contrari ai salvataggi delle economie zoppicanti di Irlanda ma anche Spagna – e agli aiuti appena pattuiti per il Portogallo. L’euro sotto pressione cede: il confronto col dollaro scende a 1,429 dopo che la scorsa settimana aveva toccato 1,450. L’uomo che ha affondato i mercati si chiama Nikola G. Swann. «A più di due anni dalla recessione», scrive l’analista di Standard & Poor’s «i politici americani non hanno ancora trovato un accordo per ribaltare il recente deterioramento fiscale». È l’atto d’accusa che porta alla bocciatura: non raggiungendo un accordo nei prossimi due anni gli Stati Uniti rischiano il declassamento ufficiale visto che il debito è passato dal 2 al 5 per cento del Pil nel quinquennio 2003-2008 all’11 per cento già  nel 2009. La possibilità  del declassamento? Inquietante: una su tre. La reazione dei mercati sorprende gli analisti: «Sono almeno due anni che la tegola incombeva». E poi da che pulpito. Le agenzie di rating sono state criticate per il loro ruolo nella recessione. L’accusa è formalizzata perfino nel rapporto appena stilato dal Congresso. Quello che puntando il dito contro i soliti noti – dagli spericolati investimenti di Goldman Sachs in giù – ha imputato proprio a Standard & Poor’s una delle responsabilità  più grandi: non aver ottemperato al ruolo di guardiano. Anche per questo oggi l’agenzia si porta avanti. Il consigliere economico della Casa Bianca, Austan Goolsbee, si sbraccia in tv: il valore economico degli Usa è sottostimato e il nostro resta un grande paese dove investire. Parla ai cinesi che hanno in tasca un decimo del debito Usa? I repubblicani insorgono: dice il capogruppo alla Camera Eric Cantor che Standards & Poor’s «ha suonato la sveglia a Washington». Per la verità  la sveglia l’ha suonata già  Barack Obama. Il presidente prima è riuscito a mettere d’accordo democratici e repubblicani facendo approvare la finanziaria 2001 con sei mesi di ritardo ma tagli da 38.5 miliardi. Ed evitando la vergognosa chiusura degli uffici statali in bolletta. Ma la battaglia vera – quella su cui Standard & Poor’s dice che da anni non c’è l’accordo – è quella sul megadebito. Il presidente e i suoi avversari qui hanno visioni opposte. I repubblicani hanno disegnato un piano da lacrime e sangue per tagli in 10 anni da 6mila miliardi e uno alternativo da 4.400: ma a pagare sarebbero sempre le fasce più esposte con la scure su sanità  e pensioni. Obama sbandiera il suo piano come più “equilibrato”: tagli per 4mila miliardi in 12 anni. Ma soprattutto recupero dei crediti che i supericchi devono all’America: eliminando quei tagli alle tasse voluti da George W. Bush. È ingiusto che gente come me non debba pagare di più – dice il presidente. Che proprio in questo giorno di passione sbandiera i suoi redditi sul sito della Casa Bianca: 1,7 milioni di dollari per 453,700 di tasse pagate.

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