Dai «pidocchi» del Pci alla figura (ambigua) dell’ «ingrato» che dissente

by Editore | 21 Aprile 2011 7:31

Loading

Ma la gratitudine, ammirevole e nobile sentimento che ingentilisce e civilizza le relazioni tra gli esseri umani, può davvero essere l’unico criterio di valutazione politica di un legittimo dissenso? E se il dissenso è da «ingrati» , la gratitudine rende forse obbligatorio il consenso eterno, o anche solo il silenzio, l’obbedienza assoluta, l’omertà  vita natural durante? La gratitudine, in politica, ha un valore ambiguo. Spesso la si confonde con la lealtà , che è un’altra cosa e che non esclude il dissenso e la critica. Dissentire apertamente non è slealtà . Anzi, la slealtà  è il consenso formale accompagnato dal lavorìo nell’ombra. Slealtà  è la doppiezza, il tradimento nascosto, la partecipazione occulta a congiure finalizzate all’abbattimento del leader di cui si tessono pubblicamente le lodi, persino in modo servile e adulatorio. Ma Stefania Craxi non è stata «sleale» : ha lealmente detto che le barzellette compulsivamente recitate dal premier sono talvolta «oscene» . Che le spensierate serate di Arcore non sono un reato ma nemmeno un luminoso esempio di «cene eleganti» . E che il Pdl deve attrezzarsi per sopravvivere anche dopo una decorosa «uscita di scena» del leader. Manifestazioni di dissenso: discutibili, ma da non soffocare nel silenzio in nome di una sconfinata «gratitudine» . Il bollare come «ingrato» chi dissente rimanda invece all’idea malata che la politica sia l’emanazione di una persona, di un sovrano, di un Capo indiscusso e indiscutibile. L’idea che un leader di partito sia il signore che elargisce favori, distribuisce posti, assicura protezione chiedendo in cambio ai seguaci fedeltà  assoluta e gratitudine «perinde ac cadaver» , come insegnava alcuni secoli fa Ignazio da Loyola, che però si riferiva non al signore ma al Signore. La «gratitudine» è il sentimento che cementa una comunità  nello stadio della personalizzazione estrema della leadership. Nell’èra dei partiti ideologici antidemocratici il dissenso era piuttosto equiparato al tradimento e all’apostasia: roba da «rinnegati» , non da «ingrati» . Nei partiti comunisti il valore supremo era l’unità  mistica del Partito: «extra ecclesiam, nulla salus» . In Italia, il Pci considerava «pidocchi» i dissidenti, e il Msi neo-fascista bollava come «Badoglio» chiunque fosse in sospetto di tradimento. Nei pur vituperatissimi partiti democratici della Prima Repubblica, il dissenso era fisiologico. Nei partiti carismatici della Seconda, il tradimento si trasforma, ineluttabilmente, in «ingratitudine» . «Ingrati» sono stati i leghisti che hanno osato contraddire Bossi. «Ingrati» , nell’ottica berlusconiana, sono stati Casini e Fini: come se il loro destino pubblico fosse il frutto di una magnanima concessione del Capo e dissentire fosse la rottura di un patto di fedeltà , una pugnalata alla schiena. Quella di Stefania Craxi è una storia a parte, e l’accostamento con quelle di Fini e Casini è eccessivo e improprio, e non è nemmeno all’orizzonte una rottura con Berlusconi. Eppure anche lei è stata sfiorata dal dubbio che un soffio di meschina «ingratitudine» ne abbia animato le parole. Stefania Craxi, peraltro, non ha nemmeno preso le distanze dal leader nella sua guerra totale contro la Procura di Milano, come invece ha fatto Chiara Moroni, la figlia del dirigente socialista che si suicidò all’epoca di Mani Pulite oggi liquidata come «ingrata» per la sua adesione al partito finiano. Ma affiora come un dogma l’idea che i socialisti, vittime della rivoluzione giudiziaria, e la figlia di Bettino Craxi in particolare, debbano a Berlusconi eterna riconoscenza e gratitudine per aver salvato nel ’ 94 l’Italia dalla vittoria considerata certa della «gioiosa macchina da guerra» post-comunista: dei «carnefici» politici del Psi craxiano. Un’idea fondata su una realtà  storica incontestabile, sebbene nel 1992 le reti Fininvest non si fossero tirate indietro nel sostegno entusiastico all’azione di Mani Pulite. Ma «l’èra della gratitudine» può avere una fine? Dopo diciassette anni esige ancora una coazione al silenzio, al ringraziamento tacito e acritico? E soprattutto, la «gratitudine» richiede che per sempre e su qualunque argomento occorra essere d’accordo con il Capo? Se la «gratitudine» diventa un potente ricatto morale, un’intimazione perenne al silenzio, la dialettica democratica normale in una formazione politica ne viene svilita, annullata, screditata. I signori delle tessere si trasformano così in signori delle anime, dove dire «grazie» equivale sempre all’umiliante «sissignore» .

Post Views: 176

Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2011/04/dai-lpidocchir-del-pci-alla-figura-ambigua-dell-lingrator-che-dissente/