Cresce la rabbia della base leghista “Ci trattano come i terroni d’Europa”

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MILANO – «Siamo trattati come i terroni d’Europa». Leghista super cattolica, Silvana Saita, sindaco di Seriate, ex democristiana folgorata sulla via del Carroccio, è disorientata e dice che di immigrati il suo paese non può più accoglierne. «Ne ho già  3300, per dire solo quelli ufficiali, perché poi gli altri non li conti. Se ne arrivano altri e bussano ai servizi sociali è un guaio grosso». E allora? «Un conto è fare gli accordi tra Stati, un altro è quando poi da amministratore devi gestire tutta questa gente che ti arriva qui perché gli hai dato un permesso». Stretta tra l’incudine della politica «conciliante» (con Berlusconi, con la Francia) e il nervosismo dei suoi elettori. Che cresce di ora in ora. Barricadera negli slogan e poi costretta ad accettare patti al ribasso facendoli passare per «successi politici». È la doppia veste con cui la Lega sta conducendo la partita immigrati. Partita sulla quale si gioca moltissimo, e questo Bossi e gli altri dirigenti – primi fra tutti Maroni e Calderoli, che venerdì hanno dovuto mettersi intorno a un tavolo e dare pubblicità  all’unità  ritrovata, nel tentativo di mettere a tacere le mille voci sui dissapori interni – lo sanno fin dall’inizio. Ogni volta che l’elettorato della Lega è percorso da preoccupazioni e pensieri, se sondi le sezioni, i dirigenti locali, la base, capisci come stanno le cose. Quanta distanza c’è tra Roma e il “territorio”. «Io non vorrei trovarmi nella situazione di Maroni – continua il sindaco Saita – so che lì ci si muove tra equilibri delicati. Ma questi accordi mi preoccupano molto. Gli altri paesi europei degli immigrati se ne fregano e tirano dritto». Questo è il ragionamento di un amministratore che si direbbe, ed è, moderato, «anche se essere cattolici non significa sposare la solidarietà  di facciata». Di un sindaco che dal proprio partito si aspetta «scelte forti». Certo non l’accordicchio con la Tunisia. Certo non la tregua con la Francia. Perché «un permesso di soggiorno, pur temporaneo, è sempre un permesso di soggiorno», incalza un altro dirigente lombardo. L’altra sera durante una riunione della Lega bergamasca – tema: neo-immigrazione, presenti diversi deputati – è girata una battuta che molti prendono sul serio. «Li mettiamo sui pullman e li portiamo alle frontiere di Francia, a Nord-Ovest, e Germania, a Nord-Est. Via Svizzera. Poi da lì andranno dove vorranno. Chi è in regola bene, chi non lo è affari suoi». Un ruolo di ponte, insomma. Che i leghisti più duri – ora costretti a convivere con un mezzo compromesso – vorrebbero vedere proposto al governo e da questi adottato. «Qualsiasi spunto o critica sono bene accetti – dice Giacomo Stucchi, uno dei big del Carroccio orobico che qualcuno indica già  come prossimo capogruppo alla Camera – L’impostante è stare uniti e non screditare il lavoro di Maroni». Gianpaolo Gobbo, sindaco di Treviso, va al sodo. «L’Europa non li vuole. Non li vuole la Francia, non li vuole la Germania (che oltretutto hanno economie più forti della nostra). Se gli altri dicono di no perché noi dobbiamo dire sì?». La domanda andrebbe rivolta a Maroni e Berlusconi. Gobbo abbozza e fa buon viso. «L’accordo? Diciamo che era l’unico modo per far scoprire le carte all’Europa. Per capire fino a che punto erano disposti a arrivare. E adesso l’abbiamo capito». Poi attacca e da qui si intuiscono le perplessità  di chi «deve mettere la faccia coi cittadini». «L’Europa non esiste. L’Italia è sola e debolissima. Non riusciamo a dare lavoro neanche ai nostri giovani, figuriamoci agli immigrati. Basta con questa balla che c’è bisogno di manodopera». Tra tensioni e tribolazioni la Lega non può più aspettare: o lancia subito un segnale forte al suo elettorato o, sulla sempre più spinosa vicenda dei clandestini rischia di sbattere contro i mal di pancia della «base». Cristian Invernizzi, assessore bergamasco alla Sicurezza e segretario provinciale del partito: «Sugli immigrati abbiamo sempre avuto idee chiare e nette. Non si possono negoziare. Dobbiamo espellere chi non è in regola, altro che accoglierne di nuovi». I traccheggiamenti di Bossi. Le fatiche di Maroni. Forse la fotografia più nitida è quella scattata da un dirigente di primo piano: «Il punto è che finché le questioni da risolvere erano nazionali riuscivamo a fare valere il nostro peso specifico nelle decisioni del governo. Ora che le questioni sono internazionali, si fa più fatica. E bisogna fare di necessità  virtù».


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