Crepe sull’asse Washington-Riad

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La monarchia saudita sembra aver perso fiducia nel perdurante vigore dell’assicurazione contenuta nel rapporto preferenziale con gli Stati Uniti: Washington aveva per decenni chiuso un occhio su riforme e diritti umani, da ultimo persino sull’evacuazione delle proprie basi militari a richiesta di Riad, anteponendo a tutto la stabilità  interna dell’Arabia Saudita, moderata e filo-occidentale, come antemurale rispetto all’Iran di Ahmadinejad. Accanto alla viva, crescente preoccupazione per la rivolta araba che dilaga alle sue porte e per le possibili conseguenze sulla stessa saldezza del regime, Riad vede anche sfumare il tentativo, permesso dagli aumenti dei guadagni petrolieri e perseguito con generose elargizioni alla popolazione e da ultimo con la concessione di mutui edilizi gratuiti, di prevenire l’agitazione sociale e soprattutto di isolare il regno dall’agitazione che serpeggia nel Golfo e dalla domanda di riforme che lo circonda: anche su questo versante, i compromessi interni dei Saud con il retrivo clero wahabita mostrano delle crepe. La minoranza sciita che conta il dieci per cento della popolazione manifesta ormai nelle piazze la solidarietà  con i correligionari del Bahrein, occupato ora dalle truppe saudite. La domanda di riforme politiche e sociali cresce. La repressione nel Bahrein e nelle province saudite che affacciano sul Golfo dove si collocano i maggiori giacimenti di petrolio a poche miglia dall’Iran sciita, ostile cospiratore, acuisce di più il contrasto tra sunniti e sciiti mentre, per il momento solo in Giordania, si mostra la presenza di infiltrati Qaedisti. Adesso, sorpresa e colpita dalla rivoluzione egiziana e dal crollo di un regime amico e per molti versi parte di uno stesso schema geopolitico moderato, Riad ha visto con sgomento gli americani sostenere la rivolta popolare ed abbandonare Mubarak, per decenni sicuro alleato degli Stati Uniti e garante del trattato di pace con Israele. La presidenza Obama era già  stata accolta con perplessità  dalla monarchia saudita che aveva per molto tempo costruito una consonanza politica ed un eccellente rapporto personale con i due presidenti Bush, padre e figlio, dei quali aveva appoggiato la politica mediorientale offrendo addirittura di impegnarsi in uno schema diplomatico regionale in cui potesse collocarsi la soluzione della questione palestinese. Questo approccio aveva dato infatti a Riad un ruolo geostrategico subregionale che adesso viene meno, sostituito a Washington da una limitata disponibilità  ad impegnarsi direttamente nella regione mediterranea-mediorientale, emersa soprattutto nelle vicende della Libia, e dalla priorità  della promozione delle riforme e della democrazia rispetto alla stabilità  politica e all’allineamento diplomatico, come è apparso nelle vicende della rivolta egiziana. L’Arabia Saudita serra i ranghi e sottolinea il proprio peso obiettivo attendendo il chiarimento con la maggiore potenza che opera nell’area. Intanto, a protezione della monarchia sunnita degli Al-Khalifa dagli insorti sciiti, ha occupato Bahrein, base fondamentale della Quinta Flotta e asse decisivo della strategia americana in Asia Occidentale. Gli interessi comuni di Washington e Riad sono molti e vanno dall’equilibrio regionale alla stabilità  politico-militare, all’energia, all’eterna questione israelo-palestinese, al nucleare iraniano: nelle nuove circostanze il rapporto tra le due capitali, destinato a rimanere strategico, è comunque in corso di revisione.


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