by Sergio Segio | 15 Aprile 2011 12:39
Con le tristi immagini di un Laurent Gbagbo[1] in cannottiera, spogliato del potere e dei vestiti, dopo esser stato catturato[2] dai parà francesi, si chiude la crisi ivoriana, ormai degenerata in guerra civile[3]. Ma un ordine democratico ristabilito in punta di fucile fa sempre discutere e se i moschetti francesi hanno spianato la strada alla presidenza di Alassane Ouattara[4], allora è lecito sospettare che Parigi abbia qualcosa da guadagnare o magari da salvaguardare. Sono diversi i piani di lettura. Il primo è di facile comprensione, la voglia di un presidente a corto di consensi come Nicholas Sarkozy di trovare un terreno sul quale aggregare consenso. Dal personale al generale, ha pesato sicuramente anche la volontà politica della Francia di riaffermare la sua status di potenza mondiale, il cui mito in realtà era già tramontato, in Africa più che altrove, perché Parigi non riusciva a sostenere più il peso economico della sua proiezione esterna. partire dalla metà degli anni Novanta, era stata rimodulata la strategia politica nei rapporti con le ex colonie alla luce del motto “ni ingérence, ni indiffèrence“. “Meno ingerenza negli affari interni di ciascun Paese, rapporti più saldi con l’Africa anglofona, minore presenza militare e apertura all’assistenza multilaterale con coinvolgimenti di Unione Europea, Fondo monetario e Banca mondiale”, spiegava un rapporto del Brookings Institution del 2003. Una ritirata soft che ha scoperto il fianco ai competitor dei francesi che hanno fatto dell’Africa, soprattutto di quella occidentale, un terreno di caccia. Parigi torna a fare la voce grossa in una sua ex colonia anche per difendere la sua posizione e i suoi interessi economici, che sono tanti e importanti.
Dalle telecomunicazioni alle ricchezze minerarie, dalle gestione di porti e aereoporti alle bibite e ai tabacchi, la Francia in cambio dell’indipendenza, alle sue ex colonie chiese una fetta consistente delle rispettive economie. Areva, Total, France Telecom, Bolloré, Sdv, Saga, Societè Generale, Delmas sono alcuni dei principali colossi francesi che da decenni fanno affari in una posozione di assoluto vantaggio. In Costa d’Avorio, anche i palazzi che ospitano la presidenza e il parlamento sono di proprietà francese. Non bisogna poi dimenticare che in 14 Paesi dell’Africa occidentale e centrale la valuta in uso è il Franco Cfa, acronimo che un tempo stava per “colonie francesi d’Africa”. Questa moneta ha una convertibilità garantita dal ministero del Tesoro di Parigi, presso il quale ogni Paese è tenuto a depositare il 65 per cento delle proprie riserve di valuta estera, oltre ad un altro 20 per cento come garanzia a copertura dei passivi finanziari, per un valore di circa 25 miliardi di dollari. In questo groviglio di interessi forti, si è inserito Gbagbo, un leader che ha cercato far dimenticare dieci anni di malgoverno (con un mandato in più rispetto a quanto gli sarebbe spettato, visto che annullò le elezioni previste nel 2005, ndr) giocando la carta del panafricanismo e di uno strumentale anticolonialismo, cavalcando sentimenti antifrancesi. I rapporti tra Parigi e Abidjan però si sono deteriorati davvero. La prova arrivò nel 2004, quando come risposta all’uccisione di nove peacekeeper francesi, la Francia sparò missili su obiettivi militari ivoriani e scatenò una reazione che fece 250 morti.
Ma c’é forse un errore in particolare che Gbagbo sta pagando, quello di aver escluso i francesi dalla corsa alla nuova ricchezza del Paese, quel petrolio che già nel 2006 aveva superato il cacao per incidenza sul bilancio ivoriano. La Costa d’Avorio al momento ha una capacità produttiva giornaliera di centomila barili di petrolio. L’ex presidente aveva promesso di raddoppiarla entro pochi anni. La parte del leone la fanno la Canadian Natural Resources, la Tullow Oil (irlandese) e la britannica Afren, con la compagnia di stato ivoriana, Petroci, come sparring partner con quote del 20 per cento nelle aree di estrazione denominate Espoir (blocco CI-26), Baobab (CI-40) e Lion (CI-11). Ma all’orizzonte si profila l’arrivo dell’australiana Rialto, che attraverso un gioco di acquisizioni si è garantita l’85 per cento del blocco CI-202 (il restante 15 per cento è di Petroci) e della russa Lukoil, che in partnershimp con la texana Vanco è al lavoro nei blocchi CI-101 e CI-401. Dopotutto, la Lukoil lo scorso settembre aveva annunciato investimenti per 780 milioni di dollari tra Ghana e Costa d’Avorio, a riprova del potenziale del Golfo di Guinea in campo petrolifero. Ma anche la Total, a ottobre, quando la vittoria di Ouattara era già data per scontata, aveva annunciato l’intenzione di cominciare esplorazioni nella ex colonia francese. Si era già parlato di un accordo con Yam’s Petroleum per scavare a largo, in corrispondenza del blocco CI-100. Ma con Gbagbo alla presidenza, i russi erano garantiti, i francesi no. Si comprende anche così, l’ostilità di Mosca all’intervento in Costa d’Avorio e anche quella di alcuni repubblicani americani, in particolare di quelli che ricevono fondi dal partner di Lukoil, la Vanco, come il senatore James Inholfe che è membro del comitato Affari esteri del Santo Usa, e del sottocomitato per Affari africani. La Francia ha puntato su Ouattara, un tecnico che è stato direttore del dipartimento “Africa” del Fondo monetario, governatore della Banca centrale degli stati dell’Africa occidenrale, teorico delle liberalizzazioni che tanto sono piaciute ai francesi e tanto poco agli ivoriani. Il suo legame con la Francia è testimoniato dal matrimonio con una cittadina francese. Fu sposato anni fa, nel sobbrogo parigino di Neully, dal sindaco della cittadina, un tale Nicholas Sarkozy.
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