Così si combatte nel fango

by Editore | 12 Aprile 2011 6:47

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L’inchiesta raccoglie una molteplicità  di elementi per mostrarli al lettore. La diffamazione prende un singolo elemento privato e lo rende pubblico. Non perché si tratti di un reato e nemmeno di qualcosa che tiene al ruolo pubblico della persona nel mirino. Ma la mette in difficoltà , la espone, la costringe a difendersi. Così il fango intimidisce, ostacola la partecipazione, invita a evitare di rovinarsi l’esistenza. Utilizza ogni cosa e non solo qualcosa di privato che attiene alla tua sfera intima ma un tuo connotato che faccia ombra: un talento, un coraggio, un’ambizione, un’aspirazione alla bellezza. Qualunque cosa attenti alla selezione alla rovescia che è prevalsa nella vita pubblica, e che deve garantire la durata dei peggiori. I peggiori sono i peggiori, o, peggio, i migliori che hanno tradito e si sono traditi e non se la sentono più di cambiare, di risalire, e mirano a tirare giù gli altri. Il gossip, paroletta che vuole rendere leggera la brutalità  della maldicenza e rendere carina la liquidazione della discrezione, è oggi uno strumento estorsivo sulla vita personale, un racket sulla privacy. Perché il fango mira alla tua sfera più intima. Ti costringe a difenderti da ciò che non è né colpa né crimine, ma solo la tua vita privata. È sacra la privacy su chi incontri, su chi frequenti, sul fatto che nessuno, tranne la persona amata, deve ascoltare una tua dichiarazione d’amore. Ma se candidi le tue amiche e puoi finire vittima di ricatti ed estorsioni, questo smette di essere un fatto privato e diventa invece condizionamento della vita pubblica di un intero Paese. La privacy è tutela della vita e della voglia di vivere. L’abuso di potere è un’altra cosa, scontata da altri. Lo scopo della macchina del fango è cancellare questa differenza fondamentale. Poter dire e ribadire: siamo tutti uguali, lo fanno tutti. E questo funziona benissimo, perché molti non comprendono la differenza, ma soprattutto perché è comodo pensarci tutti peccatori. Se siamo tutti uguali, nessuno è più costretto a fare uno sforzo per cercare di essere migliore. Questo meccanismo si nutre di una tendenza tipica del nostro Paese: se emergi, sarai stato favorito; se ti esponi, sei un narciso; se hai ambizioni, sei un opportunista. Più un potere è in crisi, più cercherà  di portare nel proprio abisso tutto ciò che gli sta attorno. Viene in mente la massima: nessuno è un grand’uomo per il proprio cameriere. Il precetto di oggi che la macchina del fango impone dev’essere: nessun uomo, tutti camerieri. La libertà  di stampa in Italia è compromessa dalla certezza che non verrai criticato per quello che dici, ma cercheranno di demolire la tua vita, la tua dignità , anche laddove non c’è ombra di reato. Ma non è un meccanismo che riguarda solo i giornalisti. La stessa cosa successe al presidente della Camera Fini, quando cominciò a dissentire da alcune posizioni a proposito di giustizia e legalità . Ma vale la pena ricordare soprattutto il direttore di Avvenire, Boffo, che aveva iniziato a criticare la condotta di Berlusconi. Nel maggio del 2009 aveva scritto: «Continuiamo a coltivare la richiesta di un presidente che con sobrietà  sappia essere specchio, il meno deforme, all’anima del Paese». Subito entrò in azione la macchina del fango, riesumando una storia vecchia di anni che riguardava una multa pagata per chiudere una diatriba giudiziaria minima (telefonate a una persona che non voleva essere disturbata). Non solo: vi si aggiungeva un documento di supposta natura giudiziaria che diceva: «Noto omosessuale già  attenzionato dalla polizia». La diffamazione si basava dunque su un documento falso, perché in nessun atto giudiziario Boffo risultava né omosessuale né tantomeno «attenzionato» dalla polizia. Ma, a parte questo, quale sarebbe il suo reato: l’omosessualità ? Chi crede che l’omosessualità  sia «da attenzionare» si comporta da sgherro di regime, regime qualsiasi. Boffo, per questo fango, è costretto prima a difendersi e poi a dimettersi. E il politico pdl Stracquadanio conia un termine sinistro che mostra come la diffamazione stia diventando metodo: il «trattamento Boffo», che richiama il «Trattamento Ludovico» di Arancia Meccanica. La macchina del fango è un meccanismo vecchio. Ci avevano provato anche con Giovanni Falcone, criticandolo non per il suo operato, ma per la sua immagine. Anche il fallito attentato all’Addaura dell’estate 1989 diventa pretesto per la diffamazione; nei salotti di Palermo, infatti, si dirà  che la bomba l’ha fatta mettere lui stesso, per attirare l’attenzione su di sé a fini di carriera. Falcone conosceva bene l’Italia e il meccanismo secondo cui se la mafia non ti uccide, se l’attentato salta, si rischia di non essere credibili. Solo la morte può legittimarti. Dopo la diffidenza mostrata verso l’autenticità  dell’attentato dell’Addaura, diventano pubbliche sei lettere anonime del “Corvo”, indirizzate a diverse figure istituzionali. Nelle lettere il magistrato viene accusato di aver fatto rientrare dagli Usa il collaboratore di giustizia Contorno e di averlo usato come killer di Stato per stanare i corleonesi. Solo il 23 maggio 1992, giorno della strage di Capaci, le critiche personali cessano. La morte di Falcone azzera le polemiche, Falcone diventa eroe. Quasi che la morte fosse l’unica prova possibile dell’autenticità  della sua lotta alla mafia. In Italia, la macchina del fango ha avuto un bersaglio prediletto in Pier Paolo Pasolini. Contro un intellettuale scomodo, indipendente, per giunta apertamente omosessuale, si tirava persino fuori un’accusa di rapina da cui lo scrittore è stato prosciolto con piena formula. Non solo attacchi da giornali di destra, ma anche giudizi sprezzanti di molti uomini della sinistra che trovavano scomoda la figura del Pasolini omosessuale. Lo scrittore subì innumerevoli denunce e 33 processi nel corso di 27 anni; non si sottrasse mai al processo. Lo stesso Pasolini scrisse su Paese Sera l’8 luglio 1974: «Mi hanno arrestato, processato, perseguitato, linciato per quasi due decenni. Questo un giovane non può saperlo… Può darsi che io abbia avuto quel minimo di dignità  che mi ha permesso di nascondere l’angoscia di chi per anni e anni si attendeva ogni giorno l’arrivo di una citazione del tribunale e aveva terrore di guardare nelle edicole per non leggere nei giornali atroci notizie scandalose relative alla sua persona…». Pasolini parla di paura, terrore: è questo che produce la macchina del fango e che spesso porta a non agire, a evitare di partecipare, a compiere uno sforzo per migliorare le cose. Una volta Enrico Deaglio nel ricordare Mauro Rostagno usò un detto siciliano: «I vermi non l’hanno a mangiare». I vermi, vale a dire, non avranno alcun potere se vivrà  più forte il ricordo di un uomo che si è adoperato per il bene e per il giusto. Oggi vale purtroppo anche per i vivi. Se ti poni contro il potere i vermi della delegittimazione ti vengono gettati addosso. Ribadisco, l’unico modo per fermare la macchina del fango è non darle credito. Riconoscerla, dire: è fango, non mi interessa, non mi riguarda. Facendo muro contro la maldicenza, non diventandone un veicolo di diffusione, non riprendendo la notiziola su un compenso o su una relazione. Non è difficile avere la possibilità  di impastarsi meno con il veleno. Basta ricordare come ci si sente quando si diventa oggetto di illazioni false, di pettegolezzi maliziosi, di mobbing fondato su presunte inadempienze, qualcosa che è capitato a tutti. La macchina del fango è un meccanismo persecutorio che non mira solo a distruggere un avversario, ma che sta scardinando ogni possibile patto di fiducia all’interno di questo Paese. Fermarla equivale a difendersi da un acido corrosivo. Nel maggio del 1924 Giacomo Matteotti denunciò i fascisti per i brogli elettorali e, terminato il discorso, disse: «Ed ora preparatevi a farmi l’elogio funebre». Sapeva che sarebbe stato ammazzato. Non sembri troppo drammatico il citare Matteotti se oggi la consapevolezza di chiunque si ponga contro il potere del governo sia quella di sentirsi «pronto alla più feroce delle campagne di delegittimazione e fango». Per ogni denuncia, per ogni critica, per ogni gesto di coraggio, per ogni resistenza, sai già  cosa ti capiterà  per cui senza paura dinanzi al “tutti facciamo schifo” risponderei come risposero i ragazzi di Locri alla bestialità  ndranghetista: e ora infangateci tutti. (sintesi dell’intervento proposto stasera alle 21 al Festival internazionale del giornalismo di Perugia)

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