Contino le aule, non le piazze
Le grandi manifestazioni popolari appartengono alla storia delle democrazie. Ma con qualche eccezione (il milione di francesi che scese lungo gli Champs Elysées, nel maggio del 1968, per puntellare la repubblica di De Gaulle contro la rivoluzione studentesca) servono soprattutto a protestare contro una legge particolare, a chiedere la revoca di un provvedimento, un salario decoroso, un migliore contratto di lavoro. Nella seconda repubblica italiana la ratio è diversa. La grande manifestazione è una specie di artifizio teatrale che trasforma la piazza in un grande studio televisivo. Non serve a contare le teste; a questo penseranno i portavoce degli organizzatori sparando sulle pagine dei giornali cifre improbabili. Serve a creare l’ «effetto popolo» per la grande massa di coloro che leggono la politica sugli schermi della televisione. Quando Boris Eltsin salì su un carro armato, di fronte alla Casa bianca del Parlamento russo, per denunciare il colpo di Stato dell’agosto 1991, la folla intorno a lui non contava, probabilmente, più di duecento persone ed era composta in buona parte da passanti incuriositi. Ma bastarono le telecamere della Cnn per trasmettere al mondo l’immagine di un grande movimento popolare, sceso in piazza contro il partito comunista dell’Unione Sovietica. Quando è usata dall’opposizione e soprattutto dal governo, la piazza è davvero un’ultima ratio e presenta almeno tre gravi inconvenienti. In primo luogo dimostra che ciascuno dei due maggiori pilastri della democrazia rappresentativa ha smesso di contestare l’avversario nei luoghi deputati della politica nazionale e ha deciso che il miglior modo per sopraffarlo è quello di sparare i suoi cannoni mediatici nelle piazze del Paese. In secondo luogo deprezza il valore della rappresentanza democratica conquistata nelle urne. Per governare o battersi contro le leggi dell’esecutivo, la maggioranza e l’opposizione non hanno bisogno di portare la gente nelle piazze. Se lo fanno esercitano un loro sacrosanto diritto, ma dimostrano di non credere né all’utilità del confronto né alla propria legittimità democratica. E in terzo luogo, infine, le piazze mediatiche trasmettono alla società il sentimento che il sistema non è più in grado di risolvere con gli strumenti della democrazia i problemi del Paese. Se centomila italiani scendono nelle strade per rispondere all’appello del loro schieramento preferito, altri italiani, molto più numerosi, giungeranno alla conclusione che le elezioni sono inutili e che il Parlamento, come è accaduto negli scorsi giorni, è soltanto un’altra piazza italiana, vale a dire un luogo dove si grida invece di parlare. Il governo e l’opposizione non si sorprendano quindi se non potranno più contare sulla fiducia e sulla stima del Paese.
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Il “bocconiano” europeista che punta sulla crescita
“Così l’Italia eviterà il baratro”. Il programma anti-default di Monti: “Via i privilegi”. L’euro non è in crisi. Se l’Italia ne fosse fuori, emettere titoli italiani in lire sarebbe un’impresa ancora più ardua. La pressione fiscale è sproporzionata sui redditi da lavoro e impresa, si è troppo alleggerita sulle rendite finanziarie. Bisogna attuare riforme impopolari mettendo insieme pro tempore le parti più sensibili di tutti gli schieramenti politici. Non ama il duo “Merkozy” né soffre complessi verso le eurocrazie. Ma sa che ci siamo cacciati da soli nei guai. Da Commissario europeo alla Concorrenza ha sfidato lo strapotere di Bill Gates nel campo dell’informatica. Berlusconi dice che il suo cuore gronda sangue, ma ha reso invisa agli italiani l’economia di mercato e impopolare l’Europa. Italia mai stata così decisiva sull’avvenire dell’Europa, e così estranea alle decisioni sull’avvenire dell’Europa
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