Come mai come mai son tornati gli operai?
Il contrasto era netto: da un lato un reality degradante, con i miasmi che avvolgono la leadership politica di questo Paese; dall’altro le immagini di un conflitto di lavoro pieno di consapevolezza e di dignità . Il «sì» e il «no» si erano confrontati entrambi con la concretezza delle condizioni di lavoro, con la drammatica realtà degli orari, del salario, dei diritti sindacali. E lo avevano fatto con estrema compostezza.
Quella mattina la «porta 2» di Mirafiori si riappropriò di un ruolo smarrito almeno a partire dagli Anni 80 del Novecento. Da allora in poi è stato come se gli operai si fossero congedati dal protagonismo politico pur continuando, ovviamente, a esistere nella realtà . Scomparvero dai media e scomparvero dalla politica. Furono i morti bruciati della Thyssen (il 6 dicembre 2007) a riaccendere l’attenzione di un’opinione pubblica assetata di emozioni. E gli operai impararono a fare della loro disperazione una forma di lotta.
Un libro di Antonio Sciotto – Sempre più blu. Operai nell’Italia della grande crisi – delinea ora il profilo di un nuovo tipo di conflittualità operaia, in una geografia italiana popolata di fabbriche e ciminiere, con un percorso che attraversa l’Italia dall’isola dell’Asinara a Melfi, dai paesini del Nord Est a Termini Imerese, dall’Ilva di Taranto alla Fiat di Pomigliano d’Arco: ovunque incontriamo tensione, rabbia, rassegnazione, speranze e soprattutto modalità organizzative assolutamente impensabili per chi ricorda i cortei, le assemblee, i blocchi stradali e le occupazioni che scandirono le lotte dell’autunno caldo.
All’Asinara, nel febbraio 2010, i lavoratori della Vinyls (una fabbrica del polo chimico di Porto Torres) hanno occupato le strutture del vecchio carcere e hanno messo in scena una sorta di reality , chiamandolo «L’isola dei cassaintegrati»; i dipendenti della Innse di Milano, in tuta blu e caschetto giallo, si sono arrampicati per giorni su un carro ponte, a 16 metri di altezza, scrutati dall’occhio curioso delle telecamere; i lavoratori della Yamaha di Lesmo hanno scritto a Valentino Rossi, per sollecitarne la solidarietà ; quelli di Termini Imerese a Fiorello, perché a sua volta convincesse Marchionne a salvare la «loro» fabbrica. E tutti insieme hanno pregato la «Santuzza», Santa Rosalia, perché compisse il miracolo, affiancandosi ai lavoratori dell’Ilva di Taranto che hanno dedicato la chiesa del loro quartiere al «Gesù divin lavoratore».
La violenza è scomparsa. I blocchi stradali (o quelli degli aeroporti e delle stazioni) sono visti con diffidenza perché suscitano l’ostilità della gente.
La politica è lontana. Molte di queste vertenze sono «senza sindacato». Tutto si concentra sulla ricerca della visibilità mediatica e alla televisione si chiede di certificare la propria esistenza, di rompere la palude dell’anonimato e dell’indifferenza. Anche i codici linguistici in cui si esprime la protesta sono importati da altri mondi, quello del tifo sportivo, ad esempio (la bandiera della squadra di basket esposta all’Asinara), e risentono dell’invadente presenza dei modelli televisivi.
La sensazione è quella di assistere a qualcosa di molto lontano dai contesti dei conflitti novecenteschi, quelli che stabilivano un nesso strettissimo tra la posizione lavorativa nei rapporti di produzione e le forme di lotta, alimentati da un’idea della trasformazione sociale. Quella dimensione non c’è più, così come i valori solidaristici di allora sembrano sostituiti dalla concretezza delle preoccupazioni individuali per il posto di lavoro, la sicurezza, la quotidianità .
Riflettendo sulla lunga notte referendaria della «porta 2» di Mirafiori, si capisce però che la disperazione, i suicidi, le fughe nella cocaina (tutte puntualmente raccontate nel libro di Sciotto) non riescono a cancellare completamente i contorni di una conflittualità operaia in grado di sottrarsi alla subalternità mediatica e di ritrovare i tratti di un indubbio protagonismo.
Basta non guardare tutto con gli occhi del Novecento. Negli Anni 70 si occupava la fabbrica e poi se ne «usciva» dilagando nel territorio con i cortei e i blocchi stradali. Ora, invece, pur di rimanere in fabbrica, l’uscita avviene non in orizzontale ma in verticale. Salire sulle gru, arrampicarsi su palazzi e cornicioni, sono modalità che suggeriscono una nuova spazialità delle lotte, tesa a non perdere il contatto con il posto di lavoro nemmeno nel momento della protesta.
Su una gru, a Brescia, sono saliti anche gli immigrati stranieri. Negli Anni 70, nelle grandi fabbriche del Nord, gli operai che venivano dal Mezzogiorno nelle loro canzoni di protesta cantavano «alla catena siamo tutti uguali», in riferimento all’uniformità e alla serialità dei compiti svolti alla catena di montaggio della grande fabbrica fordista. Culture, tradizioni, dialetti si incrociavano in un processo di confronto e conoscenza reciproca. E la «catena» diventava un potente fattore di inclusione, abbattendo barriere linguistiche e pregiudizi culturali. Oggi, le nuove forme di lotta ribadiscono lo stesso concetto: la democrazia non può fare a meno della fabbrica, e la fabbrica non può fare a meno della democrazia.
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