Cinquecento fantasmi sulle rotte della disperazione “Quel mare è un cimitero”
LAMPEDUSA – Su un registro, un diario. Sono fantasmi del mare. Quanti ce ne sono in fondo al Canale che divide l’Africa dall’Europa? Quanti uomini e quante donne e quanti bambini sono finiti in questi ultimi giorni di grandi sbarchi in quella tomba che è il Mediterraneo? Nessuno lo sa e forse nessuno neanche lo vuole sapere. È una strage che non finisce mai. A volte conosciamo solo quando comincia, come per quelli salpati dalla Cirenaica la notte del 23 marzo e scomparsi in un imprecisato punto fra la Libia e Lampedusa. Erano 335. Etiopi. Somali. Eritrei. Tutti ammucchiati su un legno fradicio stavano fuggendo dalla guerra civile, erano riusciti a salire a bordo dopo tredici giorni di attesa, il mare era un olio, uno di loro con il telefono satellitare aveva chiamato Roma per avvertire che finalmente ce l’avevano fatta. Il loro amico, Mosè Zerai, sacerdote nero e presidente dell’agenzia umanitaria Habesha che da quindici anni vive per aiutare i profughi, è stato l’ultimo a sentire quelli del barcone. Ricorda don Mosè: «Mi hanno detto che fra quei 335 c’erano venti donne e venti bambini, stavano bene anche se l’imbarcazione aveva poco carburante, poi il collegamento si è interrotto e non sono riuscito più a mettermi in contatto con loro». Dov’è il barcone con i profughi partiti il 23 marzo da Misurata? A quante miglia da Tripoli o dalla Sicilia è affondato? Padre Zerai ha lanciato l’allarme ma nessuno l’ha mai avvistato e forse nessuno l’ha mai cercato. E racconta Zaid Hagos Salomon, una donna eritrea che abita a Genova e che su quel barcone aveva un figlio: «Teke mi ha chiamato disperato. Mi diceva: “Aiutami mamma, puoi aiutarmi solo tu”. La linea cade. La madre chiama la Questura di Genova che gira l’Sos alla Capitaneria di Porto di Agrigento. Ma Teke è svanito in mare. È uno di quei fantasmi. Zaid prega prega per lui da dieci giorni e dieci notti. Dalla metà di marzo ad oggi sono almeno 519 i dispersi nel Mediterraneo, quelli di cui abbiamo in qualche modo avuto notizia della loro partenza. Più di venticinque al giorno. Affogati. Ma sono solo quelli «ufficiali», quelli che hanno chiamato con il satellitare mentre facevano rotta verso l’altro mondo. Il numero vero potrebbe essere spaventoso. Due volte di più. Tre volte di più. È una tragedia nascosta, sono urla nel silenzio che si perdono nel vento che soffia sul mare. Dopo i 335 di don Mosè Zerai ecco la drammatica cronaca che fa padre Jospeh Cassar, un gesuita del “servizio per i rifugiati” a Malta. Sono altri 70. Dispersi anche loro. Affogati anche loro. I loro cadaveri sono stati trasportati dalle correnti proprio sulle spiagge da dove erano partiti. È padre Joseph che parla: «Queste informazioni mi sono state comunicate da una persona di cui non posso rivelare l’identità per non mettere a repentaglio la sua vita. Mi ha telefonato ieri sera e mi ha raccontato tutto… mi ha raccontato che le autorità libiche hanno ritrovato sulla costa quei settanta cadaveri di migranti e hanno subito seppellito i corpi senza neppure scoprire chi erano e da dove venivano». Erano tutti neri, tutti provenienti dall’Africa sub sahariana. Spiega ancora il gesuita: «La mia fonte è molto attendibile, già in passato mi ha informato di naufragi che purtroppo si sono rivelati reali». Trentotrentacinque. Settanta. E sessantotto. Quelli del 25 marzo, anche loro salpati da qualche insenatura della Libia e anche loro tutti eritrei e somali ed etiopi. In mezzo al Canale di Sicilia sballottati da montagne d’acqua, il motore in avaria, un’ultima telefonta e poi più nulla. Don Mosè ha il suo satellitare sempre in mano. Aspetta lo squillo con il cuore in gola. «Mi chiamano di giorno e di notte, i migranti dalle barche e anche i loro parenti che li aspettano qui in Italia. Molte volte finisce come a quei 335, altre volte quelle voci diventano volti e sorrisi di uomini e di donne che incontro qui a Roma. Come Samuel…». Samuel, che la settimana scorsa aveva telefonato al sacerdote mentre il suo peschereccio imbarcava acqua a prua, erano in 110, tutti sicuri di morire a 45 miglia dalle coste libiche. E poi però si sono salvati. Ogni tanto capita. «Ma solo ogni tanto… da anni nel Mediterraneo ne muoiono a migliaia», dice don Mosè. Nell’assoluta indifferenza. Senza corpi non c’è naufragio. Senza naufraghi non ci sono morti che fanno statistica. Dispersi. E partono, partono comunque sempre per abbandonare fame e violenze. Sono partiti martedì della settimana scorsa altri 17 su un gommone e in Italia ne sono arrivati vivi soltanto 6. Raccolti fra pezzi di chiglia – erano aggrappati lì da un giorno e una notte – dai marinai di un battello egiziano. E poi portati a terra dalla motovedetta 301 della Capitaneria di Porto di Lampedusa. «Ogni volta che mi avvicino a un barcone prego Dio che mi li faccia trovare tutti salvi… ma non è sempre così», spiega il capo di prima classe Calogero Fiannaca, un siciliano di Realmonte che dal 2000 vive in mare a cercare naufraghi. Dagli aerei della Guardia di Finanza avvistano i barconi, lui e il suo equipaggio poi salpano. È sempre il momento più terribile quello dell’abbordaggio. Non sai mai quello che trovi o quello che non trovi. «Il giorno dopo quegli undici naufraghi io ho visto un peschereccio stracolmo di corpi immobili, c’erano più di 180 neri a bordo, schiacciati uno contro l’altro e uno sopra l’altro», ricorda Antonino Grimmaudo, comandante del motopesca “Cosimo Aiello” della marineria di Mazara del Vallo. Il comandante aveva anche paura di avvicinarsi a quel barcone, aveva paura che spostando il mare le onde lo mandassero giù per quanto era carico. Si sono salvati. Ma non si sono salvati gli altri trentacinque, il 15 marzo. Trentacinque su più di cinquecento tunisini. Provenivano da Zarzis, dal profondo sud. È stato Atif a ricostruire tutto, testimone della morte dei suoi compagni, di un bimbo, di tante donne che un attimo prima ha visto vive e un attimo dopo non le ha viste più. Erano dentro il mare. A Zarzis, davanti a una zona che sulle mappe nautiche è segnata come la Chabana, quaranta miglia dall’isola, quella che fino a qualche anno fa era la rotta dei negrieri tunisini, i passeur che trasportavano i neri in Europa. Una volta lì morivano solo gli etiopi e gli eritrei che riuscivano a fuggire dalla Libia, dove si spaccavano la schiena anche per un anno o due per racimolare i soldi del viaggio per l’Europa. E loro, i tunisini, con disprezzo ascoltavano il respiro del mare e dicevano: «Est la merde du noir». Era la puzza dei cadaveri. Dopo pochi anni il mare di Zarzis butta sempre quell’odore. Ma non ingoia più solo i neri, adesso ingoia tutti.
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