by Editore | 26 Aprile 2011 6:16
La frattura tipicamente italiana tra coloro che assimilano l’interruzione dell’accanimento terapeutico all’omicidio e coloro che difendono l’esistenza di un diritto di morire si riapre in un clima teso, che non solo lascia poco spazio alla riflessione etica, ma che impedisce soprattutto di porre in modo corretto le questioni fondamentali che riguardano la vita e la morte di ognuno di noi. Si decide di discutere in Aula di un progetto – uno tra i tanti – senza fare lo sforzo capire cosa possa voler dire rispettare la dignità della persona quando la morte si avvicina. Ci si dilania invocando norme e valori universali senza interrogarsi su come una persona malata possa “riappropriarsi” della propria morte. Si utilizza in modo superficiale il termine “eutanasia” senza fare alcuna distinzione tra il lasciar morire e il far morire. Si dà per scontato che il medico sappia meglio di chiunque altro ciò che si deve o non si deve fare. E nel frattempo, ci si dimentica che il dramma della fine della vita ci riguarda tutti. Perché tutti, un giorno o l’altro, ci ritroveremo lì, sentendoci impotenti di fronte alle decisioni che altri vorranno prendere al nostro posto… cercando disperatamente di essere rispettati almeno un’ultima volta… soprattutto quando non c’è più niente da fare… Uno dei tanti problemi italiani risiede nell’incapacità di affrontare alcune questioni etiche fondamentali con pacatezza e rigore. Facendo i distinguo necessari. Analizzando la complessità delle situazioni. Chiarendo una buona volta per tutte che l’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione forzate non c’entra niente con il far morire di fame o di sete qualcuno. Che esiste una differenza di natura morale tra la somministrazione diretta di sostanze letali – che provocano quindi automaticamente il decesso – e l’interruzione di terapie inutili che, mettendo fine all’accanimento terapeutico, possono poi anche avere un “doppio effetto” e provocare la morte del paziente. Ma in Italia si preferisce semplificare e banalizzare i problemi. Scegliere la via della facilità ideologica opponendo “dignità ” e “libertà “. Riempirsi la bocca di parole che suonano bene, che ci fanno sentire in pace con la nostra coscienza, che ci trasformano in paladini del valore della vita o dell’inalienabilità dell’autodeterminazione senza interrogarsi sul “senso” di quella vita, quel dolore, quella fine… Nei Fratelli Karamazov, Dostoevskij scriveva: “Ama la vita più del senso, e anche il senso troverai”. Ma quando niente è più possibile, quando si sopravvive solo perché attaccati ad un respiratore, nutriti con una sonda gastrica e trascinati come se non si fosse altro che una macchina biologica, che senso può ancora avere il concetto di dignità ? Quando si è esplicitamente chiesto che in quelle condizione si desidera essere lasciati tranquilli, partire, andarsene, in nome di cosa qualcun altro può opporsi? In Francia, la legge del 22 aprile 2005 affronta direttamente queste questioni spinose e rappresenta un modello cui potrebbero ispirarsi gli italiani. Anche semplicemente perché questa legge è il frutto di un dibattito etico portato avanti per anni, in cui il tema della fine della vita è stato sviscerato con spirito critico, fino ad arrivare ad una soluzione equilibrata e giusta. In primo luogo, la legge ribadisce la necessità di rispettare l’autonomia personale di ogni paziente: si tratta di prendere in considerazione la volontà del malato, espressa direttamente o per mezzo di un testamento biologico, senza che, per questo, il medico rifiuti di assumere le responsabilità legate al proprio ruolo. Abbandonando il tradizionale paternalismo, la Francia accetta l’idea che ogni persona abbia il diritto di esprimere il proprio punto di vista e che il medico non debba imporre a nessuno la propria concezione della morale. E non è tutto. Dopo aver riconosciuto l’importanza del “consenso” del malato, il legislatore francese prende posizione anche rispetto all’accanimento terapeutico, e afferma la necessità , per il medico, di non lasciarsi prendere la mano “dall’ostinazione irragionevole”: le cure possono essere interrotte o mai intraprese se il loro unico fine è quello di mantenere artificialmente in vita un malato. Infine, l’art. 2 permette al medico, sempre in accordo col malato e la famiglia, di somministrare forti dosi di analgesico per lenire la sofferenza, anche se la somministrazione “può avere come effetto secondario il fatto di accorciarne la vita”. Senza domandare ai medici di intervenire direttamente per far morire il paziente, la legge francese rispetta il diritto di ogni persona di morire in modo degno. Invece di proclamare in modo astratto il valore inalienabile della vita, cerca di prendere in considerazione la specificità individuale di ogni malato. Uno dei motivi per cui il dibattito italiano non riesce ad avanzare è la difficoltà che hanno i nostri politici, ma anche molti intellettuali, a mettere da parte le proprie credenze e le proprie prese di posizione ideologiche, per uscire dalle opposizioni di principio sterili e pericolose. Il problema non è tanto quello di opporre tra loro libertà assoluta e dignità intrinseca della vita. In entrambi i casi, si parla di qualcosa che non esiste o non ha senso. La libertà personale non è mai assoluta: la mia libertà non è solo limitata dalla libertà degli altri, ma è anche e soprattutto condizionata dai limiti della realtà , dal caso, dalle condizioni socio-economiche, dalla storia individuale di ognuno che interferisce sempre (nel bene e nel male) con le scelte che si possono fare. E un discorso analogo deve essere fatto nel caso della dignità : che valore si attribuisce realmente alla vita quando non si presta più alcuna importanza alla soggettività e quando, nel nome della dignità , si nega ogni valore alle scelte e alle decisioni individuali, ossia a tutto quello che dà senso alla vita e che ci protegge da ciò che Freud chiamava “la morte psichica”?
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