Catastrofe globale

by Sergio Segio | 13 Aprile 2011 9:55

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Dunque l’incidente passa, secondo le specifiche internazionali dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), dal carattere di catastrofe locale a quello di catastrofe globale. La radioattività  entra nella circolazione atmosferica, e dipenderanno dalle correnti, dai venti, dalla meteorologia insomma, le ricadute radioattive al suolo con le inevitabili conseguenze sanitarie.

Viene subito da chiedersi: se questa scala di gravità  degli incidenti, proposta dall’Aiea dopo quelli di Three Mile Island (1979) e di Chernobyl (1986), fosse stata proposta nel 1960, ci sarebbe stato l’impetuoso sviluppo che il nucleare ebbe nel ventennio successivo? Eh sì, perché il fortunato slogan di Eisenhower, «Atoms for peace» (1953), che guidò il trasferimento della tecnologia nucleare dalle armi – bombe e motori per sottomarini e navi da guerra – alla produzione elettrica, da solo non sarebbe certo bastato. Allora non si distingueva davvero tra catastrofe «locale» e «globale»: il dogma della sicurezza nucleare affermava che neanche una particella radioattiva doveva uscire dal contenimento più esterno del reattore, qualunque fosse stato il danno subito dalla «macchina». Già  a Three Mile Island non fu così, e le immagini di Fukushima con i tetti della centrale addirittura scoperchiati ci parlano di un clamoroso fallimento, gravido di conseguenze per tutti.
Ma, si obietta, è tutta colpa di un terremoto eccezionale. Ora, gli edifici hanno retto e tutto si riduce, in ultima analisi, al black out elettrico che ha impedito l’entrata in azione dei sistemi di emergenza ausiliari. E la mente va al black out del 2003, quando tutta Italia restò senza corrente elettrica per 36 ore.
Non abbiamo notizie precise sull’evoluzione dell’evento, sull’andamento della meteorologia e attendiamo i dati delle misure che l’Ispra vorrà  fornire.
Quelle della ricaduta radioattiva sul nostro territorio per poter valutare, sulla base delle note correlazioni tra le dosi di radioattività  e gli effetti sanitari (somatici e genetici) affermate da molto tempo dall’organismo tecnico internazionale (Icrp), quale potrà  essere il rischio e quali i provvedimenti da assumere.
Il ricordo va ovviamente all’inizio della fase italiana della vicenda di Chernobyl, quando il laboratorio delle radiazioni ionizzanti dell’Istituto Superiore di Sanità  (Iss), guidato da Gloria Campos Venuti, tempestivamente cominciò a fornire informazioni chiare e conseguenti raccomandazioni di carattere alimentare, ma anche di comportamento, in particolare per i bambini. Auspichiamo dunque che analoga, precisa accurata e completa, sia l’informazione da parte dell’Ispra e, ovviamente, dei mezzi di comunicazione.
La vicenda di Chernobyl fu tuttavia una brutta pagina per le istituzioni italiane che, irritate per le informazioni rese pubbliche dall’Istituto superiore di sanità , misero in dubbio le raccomandazioni. E l’opinione pubblica, lasciata senza indicazioni, si scatenò in una corsa, incivile quanto comprensibile, all’accaparramento di generi alimentari non contaminati. È appena il caso di osservare che anche allora il governo italiano si preoccupava soprattutto dei danni all’immagine del piano nucleare, che, dopo l’avvio del cantiere di Montalto di Castro, muoveva i suoi passi a Trino, Viadana, Termoli e Avetrana.
E oggi la preoccupazione sui compiti istituzionali – saranno all’altezza? – aumenta se si confronta la situazione dell’ ’86 con quella presente delle Istituzioni.

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