by Editore | 3 Aprile 2011 6:15
LONDRA – la finestra dell’ufficio, con vista su Battersea Power Station, sembra la copertina di Animals dei Pink Floyd incorniciata da un infisso. Quando uscì il disco, nel 1976, quella era una zona depressa di Londra, Vivienne Westwood viveva tappata nel negozio di King’s Road che aveva battezzato Sex e che l’anno dopo avrebbe preso il nome di Seditionaries (dal 1980 si chiama World’s End); con Malcolm McLaren cominciava a gettare scompiglio nella capitale inglese con lo stile punk. L’8 aprile compie settant’anni, è stilista di fama internazionale, da trent’anni (la prima gloriosa collezione, ispirata ai pirati, è del 1981) impera nel mainstream del fashion business, ma il suo quartier generale è uno spazio tutt’altro che convenzionale. Un viavai di creativi – molti parlano italiano – prendono d’assalto l’archivio al piano terra, dove sono catalogate le idee partorite in cinquant’anni di trasgressioni e stravaganze da quella che è ancora considerata l’agente provocatrice della moda. Da qualsiasi angolo della palazzina si ode la sua voce che impartisce ordini, interviene a distanza, consiglia, incita. Quando appare, è l’eterna ragazzaccia, i capelli arancio, gli occhi di malachite intelligenti e curiosi, un abito di pile dal taglio sbieco che pare la versione maison di un Kansai Yamamoto per Ziggy Stardust. In giro niente stoffe, niente manichini, niente schizzi. Solo libri. Libri ovunque. Su uno scaffale l’eros nell’antica Grecia, su un altro un volume sui preraffaelliti, e poi Rembrandt e Rubens e Tiziano e i puntinisti dell’Ottocento. «A me della moda non importa un fico secco. La faccio perché la so fare», esordisce. «Sono estremamente politicizzata. Non credo nella rivoluzione ma lotto per un mondo migliore, e questo complica molto le cose quando fai un lavoro come il mio». Come poteva non infuriarsi Margaret Thatcher quando Vivienne indossò un vestito che la lady di ferro le aveva commissionato (e non ancora consegnato) sulla copertina del mensile Tatler (aprile 1989)? «Non la prese benissimo», sorride Westwood, «anche perché io avversavo la sua deregulation, è stato il primo passo verso crisi economica globale. Mrs. Thatcher, per la verità , diceva sempre cose lusinghiere su di me; e le dirò che è sempre stata una donna elegante, molto elegante, immacolata. Non scherzo. Solo la Regina è più elegante di lei. Sono seria, non rida!». Artista per vocazione, stilista per caso, antifemminista («le donne che vogliono fare i lavori degli uomini non hanno compreso il potere che hanno come mogli e madri»), totalmente invischiata nel fashion business eppure aristocraticamente distaccata da marketing e consumismo, la Westwood non riesce certo a controllare tutte le sue linee, ma pretende che il messaggio esca sempre forte e chiaro. «Per questo non ho mai voluto chiudere il World’s End. È un negozio speciale, dove vendiamo capi riciclati e t-shirt con slogan politici. È sempre lì, in King’s Road, lo stesso posto dove nacque il punk». Arrivò a Londra nel 1958 da Glossop, nel Derbyshire. Aveva diciassette anni, si chiamava Vivienne Isabel Swire, il cognome Westwood l’ha ereditato dal primo marito Derek, sposato nel 1962. «Non credo che gli uomini abbiano mai avuto un futuro come quello in cui noi speravamo», racconta fissando un punto indistinto fuori dalla finestra (cioè, dentro la copertina dei Pink Floyd). «E ancora non riesco a credere che tanti sogni e idee e fermenti si siano impantanati in questi anni terribili in cui la razza umana rischia l’estinzione a causa dei cambiamenti climatici. Io sono nata durante la Seconda guerra, ho conosciuto povertà e privazioni prima di assistere all’esplosione del consumismo. Dopo due grandi guerre, dopo l’incubo del Vietnam e le proteste degli hippies, non avrei mai creduto che saremmo ripiombati in questo buio. Furono gli hippies a politicizzare me e la mia generazione. Oggi i giovani non sanno neanche cosa sia la politica. Pensano di poter sapere tutto schiacciando un tasto – e questo spiega la mia avversione a Internet». Lei era esattamente il contrario, spavalda, un maschiaccio già negli anni di scuola, quando se la dava a gambe dalle lezioni saltando dal secondo piano. «Ah sì, neanche i ragazzi riuscivano a imitarmi», dice maliziosa. «Sono sempre stata coraggiosa, eroica, con una grande joie de vivre». Era arrivata in città in cerca di stimoli culturali e l’incontro con Malcolm McLaren, l’altro vate del punk, fece scattare la scintilla. Della creatività , perché non fu amore a prima vista. «Lui aveva diciott’anni, io ventiquattro. Diventammo amici, poi amanti», racconta con molto pudore. «All’inizio non mi piaceva, ma lui fu così insistente che alla fine cedetti. È un uomo brillante, mi dissi, perché fare tanto la ritrosa? Ora che è morto posso dirlo, alla fine della nostra relazione, che è durata tredici anni, le sue idee non m’interessavano più; era un uomo intelligente, ma aveva uno smodato bisogno di gratificazioni, delle lusinghe del successo. Nostro figlio, il mio secondo figlio, nacque nel 1967, noi cominciammo il nostro lavoro di stilisti nel 1970 e andammo avanti per quasi dieci anni. Persi interesse nei suoi confronti – intellettualmente – perché si fermava alla superficie delle cose, gli bastava stupire, e non sempre ci vogliono grandi idee per stupire la gente». Insieme crearono uno stile che sarebbe entrato prepotentemente nell’iconografia del rock’n’roll e in maniera più sottile ma implacabile nel blasonato mondo della moda. La loro Factory era al 430 di King’s Road, un negozio con una storia. «Nel 1970 si chiamava Paradise Garage, ci comprai un paio di pantaloni in velluto leopardato. Mi piacevano le cose da Teddy Boy che trovavo lì. Già all’epoca, molto prima dei punk, io avevo i capelli pettinati a cresta. Conciata così, sembravo una principessa arrivata dallo spazio», dice con un sorriso velato di nostalgia. «Vede, io non ho mai dato grande importanza al punk, perché secondo me non successe niente di rilevante», continua. «Solo una brillante operazione di marketing. Cosa cambiammo? Nulla. Creammo un look straordinario, questo sì. Ma da qui a mettersi su un piedistallo – come fecero tutti, incluso Malcolm – come profeti di una generazione ribelle che lottava per una società libera ce ne passa di strada. Io vedevo solo frotte di ragazzini che vagavano per la città apatici e senza idee – ma cosa vuoi sovvertire se non hai idee? Johnny Rotten e tutti gli altri erano una manica di conformisti. Non sono i capelli verdi che ti rendono diverso, ma il tuo cervello, la tua attitudine nei confronti della vita. Le idee le avevamo noi, …Malcolm, io». Ironicamente, confessa, cominciò a fare moda a livello industriale nel momento in cui la cosa non la interessava più, alla fine degli anni Settanta, quando la partnership con McLaren era arrivata a un punto morto. «Eravamo ormai tutti preda della nostalgia. Anche Saint-Laurent fece una collezione ispirata agli anni Quaranta e Dior al periodo elisabettiano. Io incominciai facendo qualcosa di eroico, qualcosa che avesse una valenza politica. Dissero che ero una sovversiva, ma semplicemente non riuscivo a immaginare una collezione che non avesse insita un’idea di ribellione, di protesta contro qualcosa – e c’è sempre qualcosa che non va nel mondo». Era anticonformista, molto più colta di qualsiasi altro stilista («tranne Saint-Laurent, un genio», precisa), e soprattutto non era francese né italiana. «Non fu mica facile per un’inglese sfidare il mercato. La differenza tra la moda inglese e quella francese si può riassumere in una frase di Oscar Wilde: in Francia tutti i borghesi vogliono essere artisti, in Inghilterra tutti gli artisti vogliono essere borghesi. Questo spiega perché io sono sempre risultata come un corpo estraneo nel mondo della moda». Nel 2007 scatenò un putiferio dichiarando pubblicamente che non avrebbe più votato i laburisti, appoggiando i conservatori sui temi delle libertà individuali e dei diritti civili. «Fu una provocazione», spiega, «perché avevano cancellato nel paese l’idea di una destra e di una sinistra creando due partiti identici, schierati in favore dei grandi interessi economici. Contro entrambi ho pubblicato il mio Active Resistance Manifesto, che vuol dire resistenza attiva contro la propaganda. È il mio messaggio ai giovani d’oggi, che ho redatto tenendo in mente quel che Aldous Huxley scrisse in uno dei suoi saggi. I tre più grandi mali del mondo sono il nazionalismo, la menzogna istituzionalizzata e la continua distrazione, i cardini della propaganda. L’antidoto è la cultura, che è la radice dell’intelligenza, del pensiero, ciò che ti permette di sapere chi sei. Nel mio Manifesto ho scritto: “Noi siamo il passato”. E quel che sopravvive del passato è l’arte». Andreas Kronthaler, il fascinoso marito austriaco di venticinque anni più giovane, la chiama dalla stanza accanto per sottoporle un modello da mandare in produzione. «Io non mi faccio distrarre», conclude. «Non mi piace viaggiare, non guardo la tv, non vado al cinema o a teatro. Ho poco tempo libero, e lo impiego per leggere. La lettura è il mio momento di gloria. Non la smetto mai di predicare in favore della cultura, delle arti. Cosa saremmo oggi, anche noi stilisti, senza Rembrandt, Tiziano, Matisse o Monet? Se non conosci il passato, non riesci a capire il mondo in cui vivi. E tristemente, di questi tempi, siamo pericolosamente a corto di cultura».
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