Arrestati quattro affiliati del clan Lo Giudice “A Reggio bombe per punire i magistrati”

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REGGIO CALABRIA – Decisero di dar vita alla strategia della tensione per punire i magistrati che li avevano messi sotto scacco. Così quando cercarono di aggiustare le «cose», trovando «le porte chiuse» iniziarono a mettere bombe in città . Una strategia voluta dai fratelli Luciano e Nino Lo Giudice, capi dell’omonima cosca, come una sorta di vendetta. A delineare il quadro è stata l’inchiesta della Dda di Catanzaro, grazie al contributo fornito dallo stesso Nino Lo Giudice, pentitosi, ed auto accusatosi degli attentati, chiamando in causa il fratello ed altre due persone: Antonio Cortese, ritenuto l’esperto di esplosivo della cosca, e Vincenzo Puntorieri. Per tutti e quattro sono scattati gli arresti, eseguiti dalla squadra mobile e dai carabinieri del comando provinciale. I quattro sono ritenuti responsabili dei due attentati compiuti il 3 gennaio 2010 contro la sede della procura generale di Reggio ed il 26 agosto contro il portone dell’abitazione del procuratore generale Salvatore Di Landro, oltre all’intimidazione portata a termine il 5 ottobre ai danni del procuratore, Giuseppe Pignatone, col ritrovamento di un bazooka a poche centinaia di metri dalla procura. Nelle sue dichiarazioni ai magistrati, Antonino Lo Giudice ha anche riferito di essersi rivolto a due magistrati, il sostituto procuratore generale Franco Mollace, ed il procuratore aggiunto della Dna, Alberto Cisterna, chiedendo loro di intercedere dopo l’arresto del fratello Luciano. Alla loro risposta negativa, ha spiegato poi Lo Giudice, la cosca avviò la strategia degli attentati. Di «porte chiuse» in faccia ai Lo Giudice ha parlato il procuratore di Catanzaro, Vincenzo Lombardo. «Probabilmente – ha spiegato – i Lo Giudice avevano male interpretato la natura di alcuni rapporti pregressi agli attentati con i due magistrati». Nel corso di un colloquio del 22 maggio scorso Luciano Lo Giudice invita la moglie a mettersi in contatto con Cisterna, manifestando l’intenzione di volere iniziare a collaborare con la giustizia proprio con il magistrato della Dda.


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