Ambulanze, medicine, posti letto colpi di bisturi sulla sanità greca
ATENE – – Stop alle ambulanze pubbliche (troppo costose) fuori dagli stadi di calcio. Medicine con il contagocce in farmacia. Ospedali in crisi che appendono fuori dal pronto soccorso il cartello “Tutto esaurito”. La Grecia sarà pure la patria di Ippocrate e la culla della medicina moderna. Ma oggi – con la crisi che ha dissanguato le casse pubbliche e i medici sul piede di guerra contro il governo – la terapia migliore per gli ateniesi di cagionevole salute è una sola: non ammalarsi. «Proteste e boicottaggi servono a poco – ripete da mesi il ministro al welfare Andreas Loverdos –. La sanità era il buco nero dei conti del paese e dovevamo intervenire». Più del bisturi, però, è stata usata l’accetta: accorpamenti di ospedali («con i soldi che ci sono possiamo salvarne in Attica solo il 60%»), tagli ai costi delle forniture di medicinali (la Grecia è il paese dell’Ocse che li paga di più). Ma soprattutto misure draconiane per azzerare la vera metastasi del settore: la corruzione in corsia. «Speriamo funzioni – dice Evangelos Damanaki, da tre ore in coda all’Areteio, uno dei grandi ospedali della capitale –. Sei mesi fa per prenotare la risonanza avevo solo una strada: pagare una bustarella sottobanco al radiologo. Ora aspetterò un po’, ma risparmio 50 euro». Mica noccioline. Gli ambulatori ellenici, certifica Transparency International, generano un terzo del giro d’affari (632 milioni l’anno) della micro-corruzione ellenica. Doglie o frattura, stesso discorso. «Niente mazzetta, niente posto letto – ricorda Damanaki –. Un fatto scontato come pagare il biglietto per il metro». Risultato, il 48,5% dei ricoveri in Grecia nel 2009 è avvenuto sotto l’etichetta “urgente”, privilegio garantito solo a chi aveva oliato a dovere tutte le ruote necessarie. Le brutte abitudini, però, sono difficili da sradicare. E, come ovvio, i dottori sono scesi in trincea contro la riforma Papandreou. «Siamo in 7mila per 5 milioni di pazienti, no a nuovi tagli» è lo slogan di Manolis Kalokerinos, presidente del sindacato panellenico dei medici. Gli scioperi di febbraio non sono riusciti a fermare l’ok alla riforma. E ora, accusa l’esecutivo, siamo al boicottaggio sulla pelle dei malati. Un esempio? Tre settimane fa sul tavolo di Loverdos è arrivata una letterina di Eleni Rogdaki, direttrice dell’ospedale Alexandra: «Non siamo più in grado di garantire il servizio ai cittadini – il laconico testo –. Mancano le scorte e non ci sono letti». Peccato che quando l’ispettore del ministero Aris Musionis si è presentato in loco ha trovato gli armadi pieni di farmaci e 37 letti liberi. Morale: lettera di licenziamento per Rogdaki e un’inchiesta sui medici che avrebbero fomentato lo sciopero bianco. Ippocrate, probabilmente, si rivolta nella tomba. Ma la gente, dopo anni di vessazioni in corsia, sembra stare dalla parte di Papandreou. «I medici? Una casta» la fa breve Giorgos, barista nel lussuoso quartiere di Kolonaki. Una certezza maturata sei mesi fa quando un’indagine fiscale del governo su 150 dottori che abitano in zona ha scoperto che più della metà dichiarava meno di 30mila euro e un terzo sosteneva di essere sotto i 10mila. «Cifre assurde visto solo quanto spendono in cocktail», ride Giorgos. Papandreou – alle prese con una bolletta sanitaria pari al 5,8% del pil – ha deciso di andare fino in fondo. Gli uomini del ministero stanno setacciando i conti degli ospedali. Risultato delle prime 80 ispezioni: 1,67 milioni di euro di ricette false nell’area del Pireo, un milione di forniture gonfiate in un paio di cliniche di periferia. Il governo ha alzato l’asticella varando la liberalizzazione delle farmacie. E la risposta non si è fatta attendere. «Se Papandreou non ci paga gli arretrati, da fine mese niente medicine» ha tuonato Theodoro Abazoglou, numero uno dei farmacisti dell’Attica. La guerra continua. I greci, intanto, possono solo augurarsi di conservarsi in buona salute.
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I primi giorni di aprile di quest’anno, appena sopra l’equatore, mi trovavo nel cortile in terra battuta della Bunanimi primary school, la scuola elementare di un piccolo paese nella parte Sud Orientale dell’Uganda, non distante da Mbale. Avevo appena visitato un orto scolastico sotto un sole cocente che da un mese ritardava troppo l’arrivo della stagione delle piogge. Nella comunità serpeggiava una certa preoccupazione, lì se non piove si rischia letteralmente di patire la fame. Nel cortile eravamo riuniti con i maestri, i bambini e i loro genitori per scambiare qualche parola. Intanto pensavo a quanto è difficile comunicare la complessità di una cosa come Terra Madre, ma quanto invece sarebbe stato semplice se lì fossero stati con me tutti quelli a cui la racconto dal 2004, quando è nata.
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