Yemen, svolta dopo la strage i generali passano con i ribelli

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A tre giorni dalla morte di almeno 45 persone sotto i colpi delle milizie fedeli al regime venerdì scorso nelle strade di San’a e a all’indomani della decisione di Ali Abdullah Saleh di licenziare l’intero governo, lo Yemen ha vissuto ieri un’altra drammatica giornata. Tre dei più importanti generali del Paese hanno voltato le spalle al presidente e si sono schierati apertamente dalla parte dei manifestanti che da mesi ne chiedono le dimissioni: «Appoggiamo la rivoluzione dei giovani e faremo il nostro dovere mantenendo nelle strade della capitale sicurezza e stabilità » ha detto parlando a nome dei tre, il generale Ali Mohsin Saleh, responsabile militare della zona nord-occidentale dello Yemen. Proprio le dimissioni di questo ufficiale, incaricato di controllare una delle aree più difficili del Paese e considerato un fedelissimo del governo, sono un colpo durissimo per l’impalcatura su cui si basa il potere di Saleh, che pare perdere pezzi di giorno in giorno: prima della cacciata del governo diversi membri dell’esecutivo si erano già  dimessi per protesta contro la repressione violenta, così come molti ambasciatori e parlamentari. Ieri, oltre ai generali, si è schierato con la piazza anche uno degli sceicchi più potenti, Sadeq Al Ahmar, capo – insieme al fratello Hussein, già  da tempo dalla parte dei manifestanti – della confederazione di tribù più importante dello Yemen, gli Al Hashid, a cui appartiene lo stesso Saleh. La defezione di Al Ahmar insieme a quelle dei generali sono lette dagli esperti come la dimostrazione che una parte importante dell’establishment è pronta ad abbandonare Saleh. Ma l’ex militare che per anni si è vantato di «danzare ogni giorno sulla testa dei serpenti» per tenere unita una società  arretrata e tribale come quella yemenita non pare intenzionato a mollare: ieri ha ordinato a tank e divisioni a lui fedeli di circondare il palazzo presidenziale per evitare ogni tentativo di assalto e nello stesso tempo ha inviato messaggeri presso i più importanti governi dell’area, primo fra tutti quello dell’Arabia Saudita. Non è chiaro però quanto questo possa aiutarlo: la repressione violenta delle proteste, il bavaglio sulla stampa – ai giornalisti internazionali non è consentito l’ingresso nel Paese dall’inizio della crisi, un gruppo di free lance che lavorava per la stampa Usa è stato cacciato la scorsa settimana e la stessa sorte ha subito una troupe di Al Jazeera, accusata di «fomentare la violenza» – il rifiuto di ogni reale dialogo hanno alienato a Saleh il supporto del più importante dei suoi alleati, quegli Stati Uniti che per anni hanno chiuso gli occhi di fronte alle inadempienze del suo governo spaventati dal fantasma di Al Qaeda, che ha nello Yemen una delle sue basi. Oggi la paura non sembra bastare più: Washington ha condannato le morti di venerdì. E questo, unito all’abbandono da parte dei più fedeli fra i suoi alleati interni, potrebbe segnare la fine di Ali Abdullah Saleh.


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