Un premier sotto ricatto

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La sparuta pattuglia dei cosiddetti «responsabili», assoldati tra le anime perse dei «disponibili» di Transatlantico, gli ha presentato il conto: i nostri voti alla Camera, in cambio di poltrone di governo e di sottogoverno. Esposto a questo ricatto pubblico subito in Parlamento (che si somma ai ricatti privati patiti sul Rubygate) il premier non si è potuto tirare indietro. A costo di imbarcare, al dicastero dell’Agricoltura, un deputato chiacchierato sul quale pende un’inchiesta per concorso esterno in associazione mafiosa. Non è la prima volta che Berlusconi mette in squadra ministri discutibili, sul piano politico e giudiziario. Volendo, si potrebbe partire da lui stesso. Se si allarga lo sguardo, tornano in mente il plurindagato Cesare Previti ministro della Giustizia, sul quale pose il veto Scalfaro nel maggio 1994, e poi il plurinquisito Aldo Brancher ministro per l’attuazione del federalismo, sul cui pretestuoso «legittimo impedimento» pose il veto Napolitano nel giugno 2010. Ma stavolta c’è di più e di peggio. Da un lato, appunto, c’è la sottomissione a un truce ricatto, che la dice lunga sulla condizione di «minorità » di questa maggioranza: si è dotata di un fragile argine numerico, ma non dispone più di un solido margine politico. Dall’altro lato, c’è la sfida alle istituzioni. La scorsa settimana, nel primo incontro al Quirinale sul rimpasto, il presidente della Repubblica aveva già  segnalato al Cavaliere che l’eventuale proposta di Romano ministro sarebbe stato un problema serio, viste le pesantissime ipotesi di reato che tuttora pendono sul personaggio in questione, per il quale esiste una richiesta di archiviazione ma sul quale il gip non si è ancora pronunciato. Ancora l’altro ieri sera, Napolitano aveva ripetuto a Gianni Letta che se il premier non avesse desistito dal suo intendimento, il Capo dello Stato avrebbe accettato la sua proposta perché non esistono «impedimenti giuridico-formali» tali da giustificare un diniego, ma non avrebbe rinunciato a rendere pubbliche le sue «perplessità  politico-istituzionali» sulla nomina. Nonostante questi avvertimenti, il presidente del Consiglio è andato fino in fondo. E ha costretto il Colle a un atto clamoroso e irrituale: un comunicato ufficiale in cui si auspica un rapido chiarimento sulla posizione processuale del neo-ministro, in relazione alle «gravi imputazioni» che lo riguardano. Un episodio che non ha precedenti. La presunzione di innocenza è una garanzia costitutiva di ogni Stato liberale. Ma che credibilità  può avere un governo in cui, dal presidente del Consiglio in giù, è un contino viavai di indagati, inquisiti, processati? E fino a che punto può spingersi il cinismo politico di un premier, che pur di galleggiare fino alla fine della legislatura, è pronto a sottoscrivere qualunque «patto», anche il più scellerato, solo per salvare se stesso e il suo governo? In questa logica, perversa e irresponsabile, rientra anche la questione della giustizia. Quanto è accaduto tre giorni fa in commissione, alla Camera, è l’ennesimo scandalo della democrazia. L’emendamento al disegno di legge sul processo breve, presentato dal carneade pidiellino Maurizio Paniz (il patetico Cirami di questa sedicesima legislatura) abbatte i tempi della prescrizione per gli incensurati. Più ancora di quelle che l’hanno preceduta, è una norma tagliata a misura per i bisogni processuali del Cavaliere. Grazie a questo trucco legislativo, il processo Mills decadrà  prima dell’estate, e il premier sfuggirà  ad una probabile condanna. La vergogna non è tanto la «cosa in sé»: di misure ad personam il Cavaliere se n’è fatte approvare ben 38, in diciassette anni di avventura politica. Il vero scandalo è nella menzogna eletta a metodo di governo. Solo tre settimane fa, nel quadro della controffensiva politico-mediatica orchestrata da Berlusconi e dalla Struttura Delta, il governo aveva spacciato al Paese la sua «storica riforma della giustizia». Vendendola agli italiani, al capo dello Stato e all’opposizione come una «svolta di sistema», che per la prima volta non avrebbe contenuto norme atte ad incidere «sui processi in corso». Quindi mai più giustizia ad uso personale, mai più leggi ad personam. Un mossa astuta, propagandata e camuffata con tutti i mezzi del network informativo e televisivo di cui il premier può disporre. Una mossa che aveva accecato i soliti «addetti al dialogo» del Pd. Avevamo scritto che quella non era affatto una «riforma storica», ma una «controriforma incostituzionale». Avevamo scritto che prima di andare a vedere cosa c’era nella mano visibile del Cavaliere, bisognava capire cosa c’era in quella nascosta dietro alla sua schiena. Ora lo sappiamo. È l’ultima conferma che in Italia, finché c’è Berlusconi, la legge non sarà  mai uguale per tutti. Noi l’abbiamo capito da un pezzo. Ora speriamo che l’abbiano capito anche le anime belle del centrosinistra.


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