Troppe svendite nel passato La lezione per tenerci la Parmalat

by Sergio Segio | 25 Marzo 2011 13:23

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Sarà  banale dirlo, ma l’Italia ora piange sul latte versato e misura quanto sia difficile imbottigliarlo di nuovo. Scopre che Parmalat è strategica per la filiera agro-alimentare solo quando il 29%della società  viene acquistato senza chiedere permesso dalla francese Lactalis. E si accorge che la famiglia Besnier, avendo investito un miliardo, potrebbe perfino imporre a Parmalat una fusione con proprie attività  aggiudicandosi così il controllo assoluto sull’azienda di Collecchio e sulla sua cassa, pari a 1,3 miliardi, senz’altro colpo ferire. Di qui l’affannosa ricerca di un soggetto italiano, che possa lanciare un’Opa totalitaria ovvero minacciarla credibilmente per poi trattare con i francesi: due mosse diversamente onerose, ma entrambe quasi disperate. Per scongiurare altre Parmalat in futuro, inoltre, il governo vara una norma che riserva al ministero dell’Economia un sostanziale diritto di veto in quattro settori: alimentare, energia, telecomunicazioni e difesa. Quest’Italia sgomenta per l’invadenza francese è in molti suoi esponenti politici, economici e accademici la stessa che si era professata liberista per più di due lustri: dal 1993, quando il patto Andreatta-Van Miert avviò la liquidazione dell’Iri, al 2005, che consegnò Bnl alla banca francese Bnp-Paribas e l’Antonveneta all’olandese Abn-Amro. Era quella un’Italia che teorizzava l’apertura assoluta del mercato dei diritti di proprietà  delle imprese, e perciò professava la religione dell’Opa identificando l’interesse delle imprese con quello dei soli azionisti. Un’Italia che individuava nella Borsa il motore dello sviluppo e, violando lo spirito della Costituzione, anteponeva il consumatore al lavoratore. Un’Italia, insomma, che giudicava generatrice di mostri la politica industriale, e dunque rinunciava a costruire i campioni nazionali, tutta presa dal sogno di Wimbledon: dall’idea di riorganizzare l’economia come il torneo di tennis inglese, diventato il migliore del mondo non perché teatro di vittorie inglesi, ma perché capace di attirare i talenti senza guardare al passaporto. Vi era in quella fede una spinta riformista contro camarille e familismi. Una spinta forte e generosa, ma anche mescolata all’opportunismo di chi, pur predicando la concorrenza, non contrastava nel merito i sussidi ai grandi gruppi privati: vedi lo scandaloso Cip 6 nel settore elettrico, almeno 40 miliardi di euro di «aiuti» , ben più dei fondi di dotazione dati all’Iri. In generale, era diffusa un’esterofilia ingenua e acritica. Gli investimenti stranieri dovevano essere benvenuti senza distinguere tra l’avvio di nuove attività  dal prato verde, cosa ottima, e l’acquisizione di imprese italiane, cosa da valutare caso per caso considerando le alternative. La cessione di Telettra ad Alcatel o della Terni alla Thyssen-Krupp hanno portato denari a Fiat e Iri ma hanno anche impoverito la base tecnologica del Paese. La cessione del Nuovo Pignone a General Electric è stata decisa dall’Eni senza nemmeno considerare la proposta di Finmeccanica di sposarlo ad Ansaldo. Bisognava privatizzare tutto e subito. Diciamoci allora l’indicibile: l’Abn Amro era tanto meglio della Popolare di Lodi, visti gli esiti con la Lodi in carico alla Popolare di Verona e l’Antonveneta finita al Monte dei Paschi, dopo le parentesi olandese e spagnola, con effetti sull’acquirente senese non troppo dissimili da quelli che avrebbe avuto sulla Lodi? E siamo sicuri che Parigi avrebbe sottratto l’ex banca del Tesoro a una compagnia assicurativa nazionale per lasciarla a una banca estera? Allora l’establishment nostrano faceva proprie le censure del dimenticabile commissario Ue, Charlie McCreevy, e del ministro olandese, Gerritt Zalm, al patriottismo della Banca d’Italia, certo mal riposto sulle spalle oblique del banchiere Fiorani, salvo scoprire poi che il sistema bancario irlandese falliva e quello olandese quasi. Abbiamo detto che l’illusione liberista ha influenzato l’intero schieramento politico fino al 2005. E infatti solo nel 2006 iniziò un’incerta inversione di tendenza, con lo stop di Romano Prodi alla fusione Autostrade-Abertis che avrebbe spostato la sede del nuovo gruppo a Barcellona. Ma da allora governi e partiti hanno agito a rimorchio degli avvenimenti, senza troppa coerenza. Il governo Prodi evitò la cessione del controllo di Telecom Italia a spagnoli e messicani, e venne attaccato dal centrodestra in nome della libertà  dei capitali. Il governo Berlusconi ora pretende addirittura il veto sulle telecomunicazioni. Ma non gestisce la direttiva Ue del 2007 che alza dal 5 al 10%la soglia rilevante ai fini autorizzativi nel settore bancario, quando è chiaro che tre soggetti collegati potrebbero assaltare le nostre banche maggiori. E non si ode l’incalzare dell’opposizione. Come la socialdemocrazia tedesca ebbe bisogno di una Bad Godesberg per accreditarsi quale partito di governo, così il riformismo italiano liberista degli anni 90 avrebbe bisogno di un ripensamento, magari a Capri, per evitare che il ritorno della politica, nuovo architrave dell’economia secondo Guido Rossi, ripeta non già  le grandezze ma le miserie dell’interventismo pubblico. Il veto tremontiano è un rimedio d’emergenza per correggere automatismi inconcludenti, come la soglia del 30%oltre la quale scatta l’obbligo d’Opa. Meglio sarebbe se le società  si assumessero le loro responsabilità  inserendo difese negli statuti. Le quotazioni ne risentirebbero un po’, ma per l’Italia piangente sul latte versato dovrebbe essere sopportabile. D’altra parte, nessun artificio funzionerà  senza una politica industriale capace di dargli un senso resuscitando in forme adatte lo spirito costruttivo degli anni 50.

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