Se il rapporto col denaro è lo specchio dell’anima

by Editore | 28 Marzo 2011 5:46

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Nel giro di un paio di mesi sono usciti due libri, rispettivamente di uno psichiatra, Vittorino Andreoli, e di uno psicologo cognitivo, Paolo Legrenzi. Il primo si intitola Il denaro in testa (Rizzoli), il secondo I soldi in testa (Laterza), ma non potrebbero essere più differenti. Mentre Andreoli afferma che il fatto di avere i soldi in testa è un male tipicamente contemporaneo, Legrenzi sostiene che noi abbiamo davvero i soldi in testa, e da sempre, proprio come abbiamo in testa la scrittura e la lettura: sono dotazioni specifiche della mente umana che si proietta nel mondo costruendo arte, religione, politica, filosofia e quella quintessenza degli oggetti sociali che è il denaro. Se le cose stanno così, se il denaro è necessariamente nella nostra testa prima ancora di essere nel mondo, il nostro rapporto con i soldi è davvero lo specchio dell’anima di tutti, e non solo di Arpagone o di Paperone. E ci rivela quanto siamo inclini a sbagliarci, con errori inevitabili, perché, come diceva Ippocrate, “la vita è breve, l’arte è lunga, l’occasione fuggevole, l’esperimento pericoloso, il giudizio difficile”. Per esempio, comprare azioni è il modo più conveniente per investire i propri risparmi. Ma per un immortale o almeno per uno che abbia un’aspettativa di vita superiore ai cento anni, perché le borse alla lunga crescono sempre, però in tempi lunghissimi. Inoltre le azioni hanno un altro difetto: apprendiamo tutti i giorni, dai listini di borsa, il loro valore. Come risultato, siamo informati in tempo reale delle loro vicissitudini, e possiamo facilissimamente cedere alla tentazione di venderle proprio nel momento sbagliato. Cosa che non ci verrebbe mai in mente se, come moltissimi italiani, possediamo una casa che crediamo aumenti di valore, mentre sono i nostri stipendi che si abbassano. Per esempio gli stipendi dei professori d’università  sono sempre cresciuti nominalmente. Ma se li confrontiamo a qualche altro indice, come il numero di notti d’albergo che possono pagare, ci accorgiamo che nel 1955 coprivano 12 mesi, e nel 2009 un mese soltanto. Un crollo vertiginoso, di cui di solito i professori non hanno piena coscienza, risparmiandosi peraltro gravi frustrazioni, proprio come credere che casa nostra sia un affarone ci mette di buon umore. Siamo tutti stupidi, e i professori più degli altri? No. Tutto questo ha a che fare con due grandi caratteristiche delle scimmie cappuccine e di altri primati di cui leggiamo nel libro, tra cui Legrenzi, i suoi familiari e alcuni suoi illustri maestri. Primo, il fatto che soffriamo molto più di una perdita di quanto siamo felici per un guadagno, con un atteggiamento che non è affatto irrazionale, perché una perdita può costituire un danno irreparabile (immaginiamo un nostro antenato nelle savane che perde un’arma o il cibo), mentre del guadagno in fondo si può sempre fare a meno (campavamo anche prima). Secondo, il fatto che non siamo capaci di previsioni circa un futuro in cambiamento: se uno gioca alla roulette russa mettendo un proiettile in un revolver a sei colpi ha una possibilità  su sei di morire. Un gioco idiota, ma con delle probabilità  calcolabili. Solo che con le finanze noi non sappiamo quasi niente, quindi i proiettili possono essere anche tre (e in questo caso le probabilità  di morire non sono una su sei ma una su due) o sei (e in questo caso è morte certa). In taluni casi, poi, c’è una disparità  cognitiva: c’è chi conosce effettivamente le probabilità  di un evento (per esempio le assicurazioni) e chi le ignora (i clienti delle assicurazioni). La combinazione tra questi due elementi, sommati al dato centrale del timore delle perdite sta alla base dei guadagni delle assicurazioni, che ci spingono a tutelarci con cura da eventi statisticamente molto improbabili. Dal punto di vista statistico, la probabilità  che ti vada a fuoco la casa è fortunatamente remota quasi quanto la possibilità  di vincere alla lotteria. Ma mentre nessuno penserebbe di vivere vincendo alla lotteria, è normale tutelarsi contro l’eventualità  di un incendio. Dobbiamo rivolgerci agli esperti? Mai, perché loro non devono fare i nostri interessi, ma prima di tutto quelli degli azionisti della banca. L’investimento più sicuro e redditizio che si possa immaginare sono i cosiddetti “prodotti finanziari passivi” (in gergo Etf), con cui ci si compra in modo meccanico il listino azionario nel suo complesso. Ma nessun esperto vi consiglierà  mai un investimento di questo genere, che danneggerebbe i suoi azionisti. Allora dobbiamo diventare, noi stessi, tutti economisti? No, il punto è un altro. Si tratta di capire che in quello che con tanta esattezza si chiama “il bilancio di una vita” sia economisti sia non economisti possono avere ragione, come quando Legrenzi da ragazzo andava al cinema con i genitori: se il film era brutto, il padre (manager) diceva di andarsene, visto che avevano già  subito un danno, il costo del biglietto, e non era il caso di aumentarlo. La madre (musicista) diceva di restare, perché il film avrebbe anche potuto migliorare, applicando un principio di speranza. Alla fine Legrenzi propende per l’insegnamento della madre quando, parlando di educazione economica dei ragazzi, fa notare che è molto meglio educare alla tenacia e alla speranza che insegnare le regole degli interessi composti e dei giochi in borsa. Ecco il messaggio finale di questo libro che parla di soldi senza demonizzarli, perché è pieno non solo di acume e di sapere, ma anche dell’intera economia della vita di Legrenzi.

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