Samir e gli altri, l’attesa per l’ultimo miraggio “Saliremo su quelle navi e poi vivremo felici”
LAMPEDUSA – Cosa farai quando ti porteranno via di qui? «Mi sveglierò lontano». Lontano quanto Samir? «Lontano come Marsiglia o lontano come Parigi». Lontano per fare cosa Samir? «Per non sentirmi più in galera come mi sentivo nel mio villaggio al sud della Tunisia e come mi sento qui». La vita di Samir e le vite degli altri, le vite che si mischiano sullo scoglio di Lampedusa, tutte che si confondono nella vergogna o nella rabbia, nella paura. Uomini, donne, neri, bianchi, italiani, magrebini, affamati, infreddoliti, risentiti, furiosi, rassegnati. Tutti che urlano o che si abbattono, che sperano o si disperano. E aspettano. Le navi. Un’altra traversata. Un’altra isola. Un’altra prigione. Tu, cosa aspetti Samir? «La libertà aspetto, solo quella». Faceva l’imbianchino Samir, che ha ventotto anni e adesso non sa più nemmeno chi è e non sa più dov’è. Spaventato come non era stato mai, due settimane fa è approdato in quest’isola che non è ancora Italia e non è più Africa, quest’isola che è diventata la sua tana, un sasso piatto in mezzo al mare dove sopravvive sognando. Aspetta le navi dell’esodo promesso, aspetta e intanto ascolta il rock magrebino diffuso dagli altoparlanti di un bar di piazza Libertà , caffè Mediterraneo, stessa musica e stesse palme come a Gabes, stessa esistenza grama. «Salirò su una di quelle navi e poi vivrò felice»», sospira lui, che non ce la fa più a dormire nelle cavità della montagna, anfratti fetidi, la sua ultima casa in una Lampedusa che sembra Djerba, abitata da un popolo che vaga fra Cala Creta e Cala Croce, seimila o forse anche settemila ragazzi che sono venuti dall’altra parte del mondo, nessuno lo sa quanti sono, alla mattina sono lì sdraiati sui moli e di notte si riparano dentro il ventre delle colline insieme ai topi e ai pipistrelli. Dove stai andando Smeret? «Non lo so, io non sono neanche dove sono adesso». Ma qualcuno ti ha detto che sarà di te e di tuo figlio? «So che mi trasferiranno in Italia, mi trascinano di qua e di là , non ho neanche le scarpe, non ho neanche una coperta per il bambino». È in fila sulla banchina più lontana Smeret Tarek, giovanissima eritrea arrivata ieri l’altro con altri quattrocento neri sul barcone che stava per affondare. Sta allattando la figlia Fatima, che non ha ancora due mesi di vita ed è già clandestina. Anche lei è in lista, una lista infinita di nomi veri e di nomi falsi, il passaporto per andarsene su una di quelle sei navi che prima o poi – domani, dopodomani, fra tre giorni? – apparirà all’orizzonte. «Sono stanca, non ho più forze, non immaginavo questo destino quando ho deciso di fuggire», racconta Smeret che ricorda il suo primo viaggio verso Lampedusa nel giugno del 2010, il fermo, il “respingimento” in Libia da dove era partita, la prigione a Tripoli, un’altra spiaggia e un’altra traversata, altri sventurati compagni e un altro carcere a cielo aperto. Comandante, che succederà domani? «E chi lo sa, per mille che se ne andranno su quelle navi ne potrebbero arrivare altri diecimila, i nostri radar segnano puntini gialli in tutto il Mediterraneo», risponde Calogero Fiannaca, capo di prima classe e comandante della motovedetta 301 della Capitaneria di Porto, centinaia di abbordaggi nel Mediterraneo negli ultimi otto anni, una vita passata a salvare altre vite. L’altro giorno ha tirato sulla sua motovedetta un bambino appena nato. Si chiede che fine farà quel piccolo, che era ancora attaccato alla madre con il cordone ombelicale: «Chissà dove finiranno lui e suo madre». Sarà davvero liberata domani la sua Lampedusa? «Spero che se li portino tutti via, non sono razzista ma qui da un momento all’altro può accadere di tutto, basta una scintilla per scatenare una guerra». È Giuseppa, Giuseppa Maggiore, lei casalinga abitante al civico 46 di via Roma, il marito Vincenzo muratore, il figlio Giovanni meccanico. Forse è più intimorita che furiosa, ma Giuseppa non li vuole più fra i piedi «questi qua». Ce l’ha con il governo, ce l’ha con il sindaco, ce l’ha con il governatore della Sicilia, ce l’ha soprattutto con la “sua” deputata Angela Maraventano, quella di Lampedusa eletta nella Lega: «Fino a qualche anno fa si incatenava al porto per protestare contro gli sbarchi, in queste settimane non ha avuto il coraggio di venire una sola volta qui nella sua isola». Arriveranno o non arriveranno le navi? «Arriveranno ma non riusciranno mai a svuotare Lampedusa». È tormentato Brhane Tarek, il clandestino etiope che è diventato «operatore sociale». È qui a Lampedusa dal 26 ottobre del 2005, il giorno che l’hanno raccolto in mare. Aveva vent’anni, ha imparato l’italiano e adesso è qui, in mezzo ai bianchi e ai neri a confortare e a spiegare e a rincuorare. Come Totò Martello, albergatore ed ex sindaco che fa comizi ad ogni angolo di strada: «Se queste migliaia di magrebini resteranno ancora qui la nostra isola da domani sarà una barricata. Chiuderanno scuole, ristoranti, bar, negozi, faremo uno sciopero generale ad oltranza fino a quando non ci riprenderemo Lampedusa». Padre, cosa accadrà ancora in questa isola? Vincent Mwagala, il parroco nero della chiesa madre di Lampedusa benedice i due popoli che sopravvivono. E poi alza gli occhi al cielo: «Solo Dio ci può proteggere, solo lui può fare quello che a Roma non sono riusciti a fare». Padre, le navi riporteranno la pace? «Solo Dio lo sa».
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