“L’intervento a terra sarebbe un grave errore la soluzione è politica”

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Nel giorno incui la diplomazia sembra finalmente rimettersi in moto dopo una settimana di bombardamenti aerei, anche Dominique de Villepin intravede una speranza di pace. «L’impiego della forza deve rimanere limitato nel tempo e proporzionato alla minaccia. Occorre sostenere una transizione democratica, senza sostituirci al popolo libico». Per l’ex premier francese è necessario scongiurare il principio del «regime change», un cambio di regime imposto dagli occidentali. «Dobbiamo evitarlo ad ogni costo» spiega l’uomo nel 2003, da ministro degli Esteri, pronunciò all’Onu il famoso discorso con il quale la Francia si opponeva all’intervento militare in Iraq. Oggi invece lei è favorevole alla risoluzione Onu che prevede l’uso della forza in Libia. Cosa è cambiato? «La comunità  internazionale è stata posta di fronte a un’urgenza. Bisognava impedire i massacri a Bengasi. Abbiamo preso le nostre responsabilità  e la Francia è stata la prima a lanciare l’iniziativa. La risoluzione 1973 fissa un quadro chiaro, limitando l’intervento alla protezione dei civili. È una situazione molto diversa della crisi in Iraq. La somiglianza ci potrebbe essere solo nel caso di un’operazione di «democratizzazione con le armi», secondo la teoria dei domino dell’allora amministrazione Bush, da evitare assolutamente». Finalmente c’è un accordo per il passaggio del comando alla Nato. Perché così tanta resistenza da parte francese? «Dobbiamo fare attenzione. È un segnale molto negativo. Conosciamo il precedente dell’Afghanistan, nel quale dieci annidi occupazione ci hanno portato a una situazione senza vie d’uscita. La nostra cautela è dovuta anche al fatto che per le opinioni pubbliche dei paesi arabi la Nato rappresenta la mano lunga dell’America. Quello che a molti appare come una soluzione tecnica rischia invece di essere un segnale politico e strategico che può rompere l’equilibrio dal quale ci siamo mossi». Un equilibrio già  fragile, con divisioni sempre più profonde tra i paesi alleati. Ci sono stati errori diplomatici? «La base dell’intervento militare era fragile in partenza conl’astensione dei paesi emergenti e della Germania, che ha segnato la divisione europea. Anche per questo occorre un’interpretazione il più possibile prudente e rigorosa della risoluzione, cercando di allargarne il consenso». Sembra che ci sia ancora confusione sugli obiettivi militari da raggiungere.«Ci sono almeno tre linee rosse molto chiare. Escludere sbarchi di truppe occidentali sul territorio della Libia, evitare un cambio di regime con la forza e non affidare l’intera supervisione delle operazioni alla Nato». I bombardamenti aerei potrebbero non bastare. Come si vince la pace? «Mettiamo in campo una vera strategia che responsabilizzi la Lega Araba con l’appoggio dell’Unione europea e il coordinamento delle Nazioni Unite. Bisogna mobilitare ogni mezzo: congelamento dei beni, sanzioni economiche, incriminazione da parte della Corte penale internazionale». Quali sono i tempi? «Non appena gli attacchi di Gheddafi contro la popolazione cesseranno, bisognerà  fermare l’intervento. Prima riusciremo a far partire un processo politico di transizione, prima si fermeranno anche le operazioni militari». E se il dittatore Gheddafi resta al suo posto nonostante ibombardamenti e continua a controllare parte della Libia? «Un intervento occidentale potrebbe screditare i protagonisti di questo processo democratico, come abbiamo visto in Afghanistan, e non tenere conto dei fattori tribali e regionali, per esempio le tensioni storiche tra la Cirenaica e la Tripolitania. Noi, francesi e italiani, non abbiamo certo realizzato l’unità  nazionale e la democrazia in qualche mese, e neppure in pochi anni». Altre sollevazioni sono in corso in Yemen e Siria. Perché in Libia abbiamo scelto di intervenire, e in altri paesi no? «Nel caso della Libia, la comunità  internazionale ha preso le sue responsabilità  di fronte a un dramma imminente. Non può diventare un caso di scuola, questo è ovvio. Piuttosto, dobbiamo cogliere e sostenere le aspirazioni al cambiamento in tutti i paesi arabi. In particolare, propongo di nominare un rappresentante speciale dell’Unione europea, incaricato di esplorare tutte le strade possibili verso il dialogo e la democrazia».


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