“La paura, poi gli applausi così sul barcone dei disperati ho fatto nascere mio figlio”

by Editore | 28 Marzo 2011 6:59

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PALERMO – Hanno visto le bombe devastare Tripoli, i mercenari entrare nelle case e sparare a vista, i libici violentare le donne. Hanno avuto più paura della guerra e della «caccia al nero» nel paese di Gheddafi che di affrontare il Canale di Sicilia con il loro bambino che stava per nascere. Ora Asfaw e Feketre sorridono e guardano la foto che segnerà  per sempre la loro vita: Feketre a Lampedusa su una barella, il piccolo Yeabsera, nato su un barcone alla deriva, sul grembo. «Grazie a Dio», sussurra Feketre nella stanza 805 del reparto di Ostetricia dell’ospedale Cervello dove è stata trasportata dopo essere stata prelevata da un elicottero mezz’ora dopo il suo rocambolesco parto. «Grazie a Dio siamo vivi, grazie a Dio che ha salvato la vita a nostro figlio. Per questo gli abbiamo dato questo nome che significa “dono di Dio”». Hanno ancora negli occhi gli orrori della guerra e il terrore di quel mare nero sempre più agitato dopo che la nave canadese che li aveva intercettati nel canale aveva tirato loro solo un po’ di acqua e biscotti lasciandoli poi proseguire da soli. «Eravamo in viaggio da quattro giorni ed eravamo già  allo stremo. Quando abbiamo visto la nave canadese abbiamo pensato che era finita, ma ci hanno abbandonati in mare, sono stati otto ore davanti a noi, ci hanno tirato un po’ di acqua e cibo e poi sono andati via dicendo che non potevano fare altro – racconta Asfaw – è stato in quel momento che abbiamo avuto paura di morire, il mare si ingrossava, eravamo soli, c’erano altre donne incinte e bambini. Poi Feketre si è sentita male…». Sorride ora Feketre ascoltando suo marito rivivere le drammatiche fasi del parto, della nascita del loro bambino, che dorme tranquillo nella nursery dell’ospedale. «C’erano onde alte e il barcone sobbalzava. Eravamo più di 300, stipati l’uno all’altro, Feketre aveva forti dolori alla schiena ma non abbiamo capito che erano le doglie, pensavamo fosse la posizione scomoda del viaggio. Poi, in un attimo, le si sono rotte le acque. Mio figlio l’ho fatto nascere io, con le mie mani, aiutato dalle altre ragazze che erano nella barca con noi. È durato pochi minuti. In quel momento il mare si è calmato. Poi non ho capito più nulla. Intorno a noi c’era chi applaudiva, chi piangeva. Abbiamo preso il bimbo, coperto, mezz’ora dopo abbiamo sentito un elicottero sopra di noi. Un soldato si è calato e ha salvato Feketre e il nostro bambino». Ventisette anni lui, ventisei lei, entrambi eritrei emigrati in Libia in cerca di un futuro migliore. «Non avevamo mai provato a tentare la traversata prima – dicono – ma già  da tempo pensavamo di fuggire in Europa». Feketre si guadagnava da vivere con i lavori domestici, Asfaw con impieghi saltuari. Entrambi a Tripoli, lì si sono conosciuti e innamorati, lì si sono sposati e hanno concepito il loro bambino. E lì, quando gli aerei della coalizione già  sganciavano le bombe su Tripoli, hanno deciso di partire. «Certo che avevamo paura, soprattutto io con quel pancione di otto mesi – dice Feketre – ma non avevamo niente da perdere. I miliziani entravano nelle case e uccidevano, violentavano le donne, sparavano da tutti i lati. Pensavamo che saremmo morti. Un orrore che non mi abbandonerà  mai, torna sempre nei miei incubi». «Per noi neri – aggiunge Asfaw – la vita in Libia non è stata mai facile. Abbiamo subito violenze e vessazioni di ogni genere, ti salvavi la vita soltanto se davi tutto quello che ti chiedevano. E ora non c’era più alcuna regola. Io sono stato anche arrestato per strada, non avevo fatto niente, pensavano che volessi fuggire, mi hanno tenuto dentro per sei mesi». Dalla decisione al viaggio sono passati pochi giorni. «Trovare un trafficante di uomini a Tripoli è la cosa più facile di questo mondo – dice Asfaw – in due giorni abbiamo preso gli accordi e pagato 600 dollari a testa. Poi a piccoli gruppo da Tripoli ci hanno portato nelle campagne di Misurata dove abbiamo aspettato nelle campagne in punti di raccolta. Poi è arrivato l’ordine di partire, un vecchio barcone di legno, più di 300 persone, poca acqua, poco cibo, un solo telefono satellitare e tante preghiere». Raccontano di migliaia di africani come loro in fuga dalla Libia, molti verso la Tunisia, altri – quelli che hanno i soldi per pagarsi il viaggio – in coda in attesa del momento buono per la traversata. E ora? I missionari laici comboniani di Palermo hanno già  offerto ospitalità  alla giovane famiglia. Asfaw e Feketre non hanno ancora alcuna idea su dove andare e cosa fare: «Non sappiamo neanche dove siamo – sorridono – vogliamo solo pace, serenità , lavoro e un posto tranquillo dove crescere nostro figlio».

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