Portogallo, due mesi sull’orlo del crac “Non chiederemo aiuti prima delle elezioni”

by Editore | 26 Marzo 2011 7:29

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LISBONA – Europa? No grazie. L’intero arco costituzionale portoghese, diviso su tutto, su una cosa almeno è d’accordo: Lisbona non può accettare l’assegno da 75 miliardi di euro messo sul piatto dalla Ue per puntellare i conti traballanti del paese. Poco importa che sia caduto il governo, che il Paese abbia davanti due mesi di vuoto politico fino alle elezioni anticipate e che i tassi sui titoli decennali siano volati ieri al record dell’8% dopo il taglio al rating di Standard & Poor’s. Bruxelles può tenersi i suoi soldi. «Non ne abbiamo bisogno!», ha assicurato il premier dimissionario, il socialista Josè Socrates. «Giusto – gli ha fatto eco Pedro Passos Coelho, leader dell’opposizione – riusciremo a onorare i nostri debiti». Peccato che nessuno dei due abbia dato una risposta alla domandina-chiave posta dalla pragmatica Angela Merkel: «Come?». Il problema è tutto lì. Nessun politico – prima delle elezioni – vuol prendersi la responsabilità  di aggrapparsi al salvagente della Ue. «E’ un modo per illudere il paese – dice categorico l’economista Silva Lopes – Il Portogallo non può resistere due mesi senza aiuto esterno. E il paradosso è che in questi due mesi non ci sarà  un governo in grado di negoziare alcun pacchetto di sostegno dall’estero». I tempi della finanza, in effetti, non sono quelli della politica. Lisbona, dicono gli analisti, non avrà  difficoltà  a raccogliere sui mercati i 4,3 miliardi di debito in scadenza il 15 aprile. Le Colonne d’Ercole del Paese sono però il 15 giugno quando scadranno titoli per 4,9 miliardi. Lo stato rischia di arrivare a quell’appuntamento con le casse già  vuote – ammoniscono in molti – e il rischio «è che la banche finiscano i soldi ancora prima, come è successo in Irlanda», vaticina Daniel Gros del centro di studi politici europei. Qualche segnale di tensione c’è già . Il governo (anche se in scala minore rispetto ai disastri greci) ha provato a fare un po’ di chirurgia estetica al bilancio pubblico raschiando il fondo del barile. Prima ha prelevato a forza 2,8 miliardi dal fondo pensione della Portugal Telecom per far quadrare il rapporto deficit/pil di fine anno. Poi ha “dimenticato” di contabilizzare tra i debiti statali i due miliardi di perdite del Banco Portugues de Negocios – pubblicizzato dopo uno scandalo finanziario – e l’esposizione di alcune aziende controllate dagli enti locali. Beccandosi un cartellino giallo di Eurostat che dopo Atene ha acceso un faro sui conti dei Paesi a rischio. I soldi alle imprese pubbliche arrivano con il contagocce. Ricardo Fonseca, numero uno della Metro di Porto, ne è la prova vivente. «Abbiamo bisogno di 300 milioni per pagare i creditori – ha scritto pochi giorni fa al governo – altrimenti fermeremo i treni». Risposte zero. Bussare alle banche, tra l’altro, è inutile: «Ne ho convocate 19 – ha raccontato Fonseca – Sei non si sono nemmeno presentate. Le altre sono venute per cortesia. Ma soldi niente». Forse perché loro stanno pure peggio di lui. Il povero Fernando Texeira do Santos, ministro delle Finanze in prorogatio, non sa più dove sbattere la testa. L’altro ieri, arrivato in ufficio, ha aperto la posta trovando una bella denuncia del consorzio del Porto e della Casa do Douro i due vini più pregiati delle cantine lusitane. Il motivo? Il governo, un po’ alla chetichella, ha stornato 8 milioni versati dai produttori allo Stato per la promozione delle loro etichette a un altro capitolo di bilancio per tappare uno dei mille buchi delle finanze pubbliche. «Una vergogna! – il succinto commento di Manuel Antonio Santos, presidente della Casa do Douro – daremo la nostra risposta in tribunale e nelle urne». La situazione, insomma, è al limite dell’implosione. Anche perché i margini di manovra di un governo senza poteri straordinari e ingessato dalle necessità  populiste della campagna elettorale sono pochissimi e la Banca centrale europea, che ha già  acquistato nei mesi scorsi qualcosa come il 20% del debito lusitano, non può andare oltre. La tentazione – è il tam-tam ricorrente a Lisbona in queste ore – è quella di dribblare le forche caudine della Ue per accettare la mano tesa senza condizioni apparenti da un nuovo interessatissimo amico: la Cina. Pechino, come ha già  fatto con la Grecia, ha mandato i suoi segnali di disponibilità . Concreti. Secondo il Wall Street Journal (mai smentito) la Banca centrale cinese avrebbe sottoscritto bond portoghesi per 1,1 miliardi a gennaio. E nei giorni scorsi il governo di Hu Jintao ha ribadito di essere interessato a un «legame strategico con Lisbona». La Cina tra l’altro non è stata l’unica a lanciare una ciambella di salvataggio. Il mondo cambia, il capitale si muove. E nei giorni scorsi due ex-colonie lusitane – Brasile e Timor – hanno detto di essere pronte a comprare titoli di Stato dell’ex impero. Uno schiaffo, qui a Lisbona, quasi più doloroso dell’assegno da 75 miliardi di Bruxelles.

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