by Editore | 23 Marzo 2011 8:02
In primo luogo riflettendo sulla fertile nozione di «rivoluzione passiva», di «rivoluzione senza rivoluzione», che riprendeva da Vincenzo Cuoco (il quale «ha chiamato rivoluzione passiva quella avutasi in Italia per contraccolpo delle guerre napoleoniche») per estenderla ai processi politici e culturali dell’Italia e di altri paesi che conobbero la modernizzazione senza una «rivoluzione politica di tipo radicale-giacobino». Questa mancanza in Italia significò l’egemonia del Partito moderato di Cavour (cui Gramsci riconosce un alto profilo politico e intellettuale a differenza, ad esempio, della verbosità di Mazzini), che inglobò le istanze più democratiche del Partito d’Azione, riuscendo così, proprio nel suo più autorevole esponente, Cavour, ad essere un autentico «realizzatore effettuale e attuale». Gramsci precisa che il concetto di rivoluzione passiva egli lo deduce, in modo critico e antimeccanicistico, da due principi marxiani di scienza politica esplicitamente ricordati, pur non facendo il nome di Marx per i soliti problemi di censura, nel Quaderno 15: «1) che nessuna formazione sociale scompare fino a quando le forze produttive che si sono sviluppate in essa trovano ancora posto per un loro ulteriore movimento progressivo; 2) che la società non si pone compiti per la cui soluzione non siano già state covate le condizioni necessarie ecc». Alla «rivoluzione passiva» si accompagna il «trasformismo», un tratto costitutivo, secondo Gramsci, del ceto politico italiano post-unitario. E ancora una volta è il campo moderato che incorpora singole personalità e, dal 1900, interi gruppi di orientamento democratico. Si tratta di una «classe politica conservatrice-moderata caratterizzata dall’avversione a ogni intervento delle masse popolari nella vita statale, a ogni riforma organica che sostituisse una ‘egemonia’ al crudo ‘dominio’ dittatoriale». Tale distinzione rappresenta uno dei nuclei fondativi della teoria politica gramsciana. Condizione per la conquista del potere da parte di un gruppo sociale è quella di essere, già prima della conquista, forza dirigente. Una volta al governo esso esercita sì il dominio ma insieme avendo la capacità di una ‘direzione intellettuale e morale’. Le pagine di Gramsci (ricche e originali in virtù del suo marxismo e non nonostante «il suo credo ideologico», come si dice nell’introduzione) offrono, tra le tante suggestioni, alcune righe amaramente attuali se riferite a ciò che resta della sinistra italiana organizzata, sulla «mancanza di prospettiva storica nei programmi di partito, prospettiva costruita ‘scientificamente’ cioè con serietà scrupolosa, per basare su tutto il passato i fini da raggiungere nell’avvenire e da proporre al popolo come una necessità cui collaborare consapevolmente». LIBRI: ANTONIO GRAMSCI, IL RISORGIMENTO E L’UNITà€ D’ITALIA, DONZELLI, PP. 207, EURO 9.50
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