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Il petrolio spiega, in parte, la crisi libica in corso. Il perché la guerra si esacerba con l’intervento militare occidentale, e racconta anche i nostri ritardi e impotenze: perché la globalizzazione vincente è quella che si arrocca intorno alla difesa del modello di sviluppo del capitalismo della globalizzazione. E spiega i due pesi e due misure dell’Occidente: schierato con gli insorti contro Gheddafi da una parte, e con gli sceicchi del Bahrein contro gli oppositori locali dall’altra.. È un imperialismo «di ritorno». Ne parliamo con Margherita Paolini, coordinatrice scientifica di LiMes e esperta di fonti di energia. C’entra o no il petrolio in questa guerra? Sì, il petrolio c’entra.. Dobbiamo inserire questa vicenda della Libia nel contesto più generale del mercato energetico degli ultimi due anni. I prezzi erano aumentati già  considerevolmente l’anno scorso, quando la speculazione in atto era ritornata alla carica con forza facendo il replay dell’operazione del 2007-2008. Con una trasformazione importante: il greggio di riferimento globale è diventato il greggio brent, cioè il greggio europeo, considerato poi greggio globale. A noi deve preoccupare molto il fatto che ci sia una gran differenza di quotazione tra il greggio brent e il greggio nymex americano perché siamo più direttamente colpiti dal mancato approvvigionamento. Questo fa capire che il Mediterraneo è diventata un’area considerata come un forte premium, non solo per quello che accade adesso ma proprio come area di grande scontro. Verso i paesi produttori del Mediterraneo, si è risvegliato un grande interesse perché le moderne tecnologie permettono ormai di raddoppiare le riserve che sono state svalutate fino a qualche anno fa. Le compagnie sono tornate in forza, ben rimpinguate dai guadagni che hanno avuto dall’ultima lievitazione dei prezzi del petrolio praticamente senza far niente, si sono associate con gli age found e hanno fatto speculazione. Adesso però devono tornare anche al mercato fisico, dopo aver fatto affari sul barile elettronico. Sono tornate quindi con un discreto capitale e possono fare degli investimenti anche in giacimenti impegnativi. Tuttavia vanno sempre cercando zone, giacimenti e produttori, paesi produttori, che possano offrire condizioni favorevoli. Un petrolio che si trovi con relativa facilità , in cui l’investimento dia un sicuro un rendimento. E non abbiamo tantissimi paesi sulle residue frontiere degli idrocarburi tradizionali. Abbiamo la Nigeria, l’Algeria, e «in zona» l’Alzerbaijan. Dunque la Libia era una fonte sicura? Sì. La Libia con le ricerche degli ultimi anni ha dimostrato di possedere un capitale incalcolabile di greggio e di gas. Con le nuove tecnologie le stime sulle riserve possono essere raddoppiate. Parliamo di 44 miliardi di barili di petrolio. È un petrolio di buonissima qualità , che costa poco raffinare e che non si trova facilmente altrove. E poi c’è il gas metano, che ora è la fonte più importante. Certo il petrolio per un bel po’ di tempo sarà  al centro dell’attenzione, ma ormai si va a caccia di gas. E non solo c’è gas nella parte occidentale dove già  operava l’Eni, ma si è scoperto un grandissimo giacimento di gas nel Golfo di Sirte. Perché dico che c’è interesse al Mediterraneo? Perché si è valutato che con le tecniche di oggi dal Golfo della Sirte fino a tutto il bacino del Levante (fino a Cipro), ci sono immense riserve di gas. È profondo, ma non dà  problemi alle nuove tecnologie. Parlavi della compagnie multinazionali che volevano investire. Poi si sono fermate? Le multinazionali occidentali cercavano, arrivando con parecchi soldi, di strappare migliori condizioni, arrivando con parecchi soldi per poter strappare migliori condizioni. Le cose sono andate più tranquille nel caso di compagnie cinesi o per le altre asiatiche. Mentre tutti gli altri, da Gazprom in poi, hanno cercato un po’ di fare così. Da quando Gheddafi è stato sdoganato dal governo americano, dal 2004-2005, hanno cominciato a venire la Shell, la Chevron, la Conoco Phillips, la Marathon. Poi la Rwe tedesca, infine è arrivata la Bp nel 2007 che ha cominciato a trattare questo grossissimo contratto che prevede due concessioni, una on-shore e l’altra off-shore. Ed è questa off-shore, della Sirte, che sta particolarmente a cuore. Dobbiamo anche tener conto del fatto che la Libia di Gheddafi, avendo un portafoglio di investimenti, una rendita petrolifera piuttosto alta, ha guadagnato moltissimo in questo periodo e non è stata particolarmente morbida, flessibile, a dare concessioni più che favorevoli a queste società . Mentre l’Algeria e la Nigeria si trovano in condizioni diverse, hanno anche forti indebitamenti, spese, ecc. e situazioni sociali che richiedono impiego di rendita petrolifera. Nel caso della Libia tutto questo non c’era. E Gheddafi ha fatto contratti non molto duri ma senza mai venire particolarmente incontro alle compagnie multinazionali. Si trattava comunque di contratti a lungo termine, per assicurarsi un petrolio buono e a buon mercato, tra gli ultimi disponibili di petrolio «dolce». Perché tutte le capacità  sostitutive sono di petrolio piuttosto pesante oppure di bitumi, quando di «non convenzionale», estratto da rocce o sabbie. L’unico disponibile come quello libico è quello iracheno. Anche quello dopo una guerra. La caccia è appena cominciata. E non basta per tutti. In che modo il disastro nucleare di Fukushima e il dramma ambientale del Golfo del Messico, hanno influito sulla nuova centralità  del petrolio? In due modi. La vicenda del Golfo del Messico è anche quella che ha dato la scossa decisiva a molte compagnie petrolifere per decidere di «emigrare» verso il Golfo della Sirte. Sirte rappresenta un off-shore, e anche perché lì ci sono tutti i progetti nuovi, alcuni così nuovi che ancora non sono segnati sulle carte. Perché, anche se ancora non c’è una legge valida per tutti ma solo una normativa, vengono di fatto già  richiesti, e applicati, vari criteri restrittivi sulla sicurezza. Che si traduce in un costo di estrazione, di messa in sviluppo e estrazione, molto più elevato per le compagnie. Prima il Golfo di Sirte era più a buon mercato. Questo tipo di controllo adesso si è esteso anche al mare del Nord, cioè in tutte le zone più o meno controllate che non siano posti selvaggi. Ecco quindi la necessità  di spostarsi in altre aeree. E non è che puoi andartene nell’Artico o nel Caspio dove, tra l’altro, non c’è petrolio talmente buono da giustificare grandi investimenti. Per quello che riguarda Fukushima, quel che si evidenzia è la centralità  subito del gas metano. Se ci sarà , come forse in parte ci sarà , una crisi del nucleare l’unico sostitutivo è il gas. Ma prima di Fukushima c’è stato un grande interesse da parte delle compagnie francesi – che pure operano nel nucleare – a diversificare i loro approvvigionamenti con il gas. La Francia prima non dimostrava tutto questo grande interesse, sono circa un paio di anni che sta correndo qua e là  a cercare contratti per il gas, tant’è che ha anche cercato di entrare nel progetto Southstreem. Quindi per la Francia la diversificazione è decisiva e c’è la Total che è particolarmente interessata a questo. Che fine faranno gli approviggionamenti italiani di Agip e Eni in Libia? Al di là  dei limiti della dirigenza Eni, a partire da Scaroni che si è spesso mosso non certo come il manager di una società  che ha il 30% di interesse pubblico, il fatto è che l’Italia rischia veramente molto. Dal momento che la crisi in Libia si evidenzia come spaccatura in due del paese, con una sorta di nuovo bilanciamento delle risorse, da una parte e dall’altra. Anche se la parte orientale, la Cirenaica, ma anche il Golfo della Sirte, ne hanno di più. È un elemento che tende più a dividere che non ad unire. Una situazione che si è deteriorata nel tempo, perché la Cirenaica è stata tenuta sotto il tallone del regime. Un precedente pericoloso nell’area, basta pensare alla vicina Algeria con la Cabilia, ma non solo. C’è il rischio di una «secessione» da risorse. Una tendenza che, comunque vada a finire, non va alimentata. Ma c’è. Basta riflettere sul fatto che la compagnia nazionale petrolifera libica (OiLibya) ha due associate, due branche sul territorio, che si trovano una di qua e una di là  in Cirenaica. Sono società  miste, in joint venture con società  americane. Che accadrà ? Alla fine, dopo le distruzioni della guerra civile e di quella «umanitaria», i contratti petroliferi, se saranno rispettati, potranno essere perfino più favorevoli. Perché naturalmente avremo un «venditore», la Libia, più povero e diviso e quindi più ricattabile. E questa è la situazione ideale a cui si voleva probabilmente arrivare.


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