Oil for wars, wars for oil
Il 9 aprile ci sarà una manifestazione «coast to coast» contro tutte le guerre Usa. Per muoversi gli attivisti Usa non hanno aspettato la quinta guerra in un ventennio, come è successo ai «pacifisti», italiani che nulla hanno fatto per appoggiare la coraggiosa proposta di mediazione e di pace e cessate il fuoco avanzata fin dall’inizio dal Venezuela e dai paesi latinoamericani dell’Alba. Fin dall’inizio della guerra civile in Libia, la coalizione Unac (www.unacpeace.org) ha avuto una posizione pubblica chiarissima contro ogni genere di intervento e ingerenza in Medio Oriente e Nordafrica, senza cadere nelle menzogne preparatorie di una guerra che con l’evidente (non a tutti) pretesto della «protezione dei civili» sta aiutando in modo determinante una delle due parti armate: gli «insorti» cirenaici, inneggianti alle bombe, sventolanti bandiere imperialiste (Qatar, Francia, Uk…) e monarchiche, responsabili di un’ondata di razzismo verso i neri e in parte telecomandati da Parigi. Davanti al Pentagono, l’azione dell’8 aprile si incentrerà sulle responsabilità anche ambientali e climatiche della megamacchina militare Usa (con 900 basi sparse per il mondo) che richiede un’enormità di carburante fossile: «Oil for wars»: petrolio per le guerre. Il Pentagono è l’istituzione al mondo che consuma più energia; in particolare per la US Air Force – che cerca di darsi una obamiana verniciata di verde militare a base di agrocarburanti. Secondo il World Factbook della Cia (2006) solo 35 paesi su 210 consumano più petrolio del complesso militare Usa. Il quale copre il 50% della spesa militare mondiale. Molto carburante fossile usato equivale a molte emissioni di gas serra. Un’analisi recente del «ciclo di vita» del settore militare Usa (http://www.environmentmagazine.org/Archives/Back+Issues/July-August+2010/securing-foreign-oil-full.html) sulla base dei dati forniti da organi ufficiali come la Us Energy Information Agency (Eia) stima le emissioni in 172 milioni di tonnellate di CO2 equivalente all’anno. Circa 85 milioni di tonnellate sarebbero imputabili all’uso diretto di energia nelle varie operazioni (non solo belliche), mentre per gli altri 87 milioni di tonnellate si tratterebbe dell’energia cosiddetta «grigia», incorporata nella fabbricazione di sistemi di arma, veicoli, munizioni, infrastrutture. Quando si fa la guerra, i consumi accelerano. Secondo Oil Change International l’impronta carbonica della guerra contro l’Iraq potrebbe essere pari a 140 milioni di tonnellate di CO2 equivalente. Per la sopravvivenza climatica, dicono gli attivisti statunitensi, è indispensabile fermare anche le spese belliche e le azioni militari. Del resto la faccia speculare dell’«oil for wars» è «wars for oil»: guerre per il petrolio. Le attività militari per proteggere gli approvvigionamenti petroliferi fanno intrinsecamente parte dell’importazione di combustibili fossili. Come hanno dichiarato alcuni docenti alla scuola militare Us Naval Postgraduate School: «La possibilità che l’accesso alle risorse energetiche diventi oggetto di una lotta armata su larga scala è la singola prospettiva più allarmante per il sistema internazionale».
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