Obama in Libia spera nella buona stella

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Quando, dopo essere rimasta per mezzo secolo immune ai principali trend globali che hanno investito la libera politica e il libero mercato, un’intera regione – composta da Stati molto diversi tra loro per orientamento etnico, tribale, settario e politico – decide all’improvviso, e a partire dal basso, di agganciare il corso della storia, mentre un’incerta coalizione di Stati occidentali e arabi animati da svariate motivazioni si domanda quale possa essere il modo migliore per aiutarla, si arriva ad attuare delle linee di condotta curiose e singolari. E la Libia non rappresenta che la prima delle tante, difficili scelte che ci aspettano nel “nuovo” Medioriente. Come potrebbe essere altrimenti? In Libia dobbiamo decidere se sia il caso di aiutare dei ribelli che non conosciamo a far cadere un dittatore terribile, che non ci piace, mentre al tempo stesso facciamo finta di non accorgerci che in Bahrain un monarca che ci piace e che ha violentemente eliminato persone che ci piacciono (i democratici di quel Paese) perché contano tra le loro fila gli integralisti shiiti favorevoli al governo iraniano – che nemmeno a noi piacciono. Tutto questo mentre in Arabia Saudita dei leader che ci piacciono ci fanno sapere che non avremmo mai dovuto lasciar andare Hosni Mubarak – un leader tanto inviso al suo popolo. E anche se a questo riguardo ci piacerebbe poter dire ai dirigenti sauditi di andare a farsi una passeggiata, non possiamo farlo perché questi possiedono tanto petrolio e tanto denaro – che ci piacciono. La situazione ricorda molto da vicino il dilemma che stiamo vivendo con la Siria, dove un regime che non ci piace – e che probabilmente ha fatto fuori il primo ministro del Libano, che non gli piaceva – potrebbe essere rovesciato da persone che dicono cose che ci piacciono, anche se non siamo sicuri che condividano realmente le nostre opinioni, dal momento che tra loro potrebbero esserci dei fondamentalisti sunniti che, se prendessero il potere, potrebbero eliminare tutte quelle minoranze del Paese che a loro non piacciono. L’ultima volta che dei fondamentalisti sunniti tentarono di prendere il potere in Siria – era il 1982 – l’allora presidente Hafez al-Assad, rappresentante di una delle minoranze di cui sopra, non ne fu affatto contento, e in una città  chiamata Hama fece uccidere ventimila di quei sunniti. Cosa che certo non piacque loro. È per questo che tra le diverse parti scorre del sangue amaro. Questi contrasti potrebbero riemergere nuovamente, benché alcun esperti ci dicano che oggi le cose stanno diversamente perché questa volta – e potrebbero aver ragione – il popolo siriano desidera la libertà  per tutti. Intanto restiamo cauti: i nostri tentativi di far fuori il dittatore siriano infatti non sono minimamente paragonabili a quelli con cui cerchiamo di eliminare quello libico, poiché la situazione in Siria non è chiara quanto ci piacerebbe, e la Siria rischia di stravolgere l’intera partita. La Libia implode. La Siria esplode. Benvenuti nel Medioriente dell’anno 2011! Volete la verità ? Non siete pronti a sentirla. La verità  è che si tratta di un groviglio pericoloso e violento, ricco di promesse, di potenzialità  (estremamente positive o esplosive) e zone d’ombra morali e politiche. Dobbiamo costruire la democrazia nel Medioriente che abbiamo, non in quello che ci piacerebbe avere. E il Medioriente che abbiamo è questo. Ecco perché sono orgoglioso del mio presidente – ma anche molto preoccupato per lui – e perché prego che la fortuna gli sorrida. A differenza di tutti noi che ce ne stiamo in poltrona, il presidente ha dovuto operare una scelta, come lui stesso ha spiegato lunedì scorso, esprimendo la propria posizione con sincerità  ed efficacia. «Alcune nazioni», ha detto, «riescono forse a ignorare le atrocità  perpetrate in altri Paesi. Gli Stati Uniti d’America sono diversi. E in quanto presidente, mi rifiuto di aspettare di vedere immagini di massacri e fosse comuni prima di passare all’azione». Sono contento di avere un presidente che ha una simile opinione dell’America. Il suo punto di vista non può essere ignorato, soprattutto quando ci si trova di fronte a un dittatore come Muhammar Gheddafi. Al tempo stesso, però, ritengo che sia da ingenui illudersi di poter dare un contributo umanitario limitandosi a intervenire via aerea. Adesso, poi, affidiamo la situazione alla Nato, e via. Come se si trattasse dell’Asean, l’Associazione delle nazioni dell’Asia Sud-Orientale, e come se noi non fossimo la spina dorsale dell’alleanza militare della Nato. Non conosco la Libia, ma l’istinto mi dice che qualsiasi risultato accettabile in quel Paese richiederà  l’impiego di uomini sul territorio; uomini che diano un sostegno militare ai ribelli per estromettere Gheddafi, o che, nel dopo-Gheddafi, agiscano da peacekeeper, mediando tra le diverse tribù e fazioni per facilitare la transizione verso la democrazia. Questi uomini non possono essere americani. Non possiamo permetterci che lo siano – né in termini di spesa, né di risorse umane, di energia o di impegno. Al tempo stesso, però, nutro profondi dubbi sulla capacità  o la volontà  dei nostri alleati di gestire la situazione in nostra assenza. E se la lotta in Libia dovesse inasprirsi, o raggiungere lo stallo, si chiederà  nuovamente il nostro intervento. Li avete bombardati, sono vostri. È soprattutto questo il motivo per cui mi auguro che Obama abbia fortuna. Spero che il regime di Gheddafi frani come un castello di sabbia, che l’opposizione si riveli affidabile e compatta e che richieda, per operare, solo un minimo di aiuti internazionali. Se le cose andassero così, il prestigio degli Usa uscirebbe dall’attuale situazione rafforzato, e la missione umanitaria avrà  salvato delle vite e contribuito ad aggiungere un altro Stato arabo alla schiera dei Paesi democratici. Signore, fa’ che il presidente Obama abbia fortuna. (Traduzione di Marzia Porta)


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