Ma lo slancio di San Babila si è spento e il bagno di folla diventa un rito stanco
A volerli replicare, anche i simboli si consumano. Siamo così arrivati al terzo predellino in quattro anni; e se proprio bisogna dire, con tutto che non mancheranno titoli, foto, visioni, emozioni ed implicazioni multimediali, stavolta lo spettacolo è apparso più opportuno che spontaneo, più accorto che imprevedibile, più stanco e ammaccato che vitale e trascinante. Un predellino anche un po’ sanitario, per la presenza del medico di corte, dottor Zangrillo, accanto a Berlusconi. E poi, se si vuole, un predellino segnato da quella borsa antiproiettile, inaspettata e mai vista finora, con cui i guardaspalle presidenziali, assai tesi e corrucciati in volto, cercavano di proteggere un premier fin troppo sorridente, in tal modo finendo tuttavia per schermarne il corpo nel pieno dell’ostensione – che è poi il fine ultimo, antico e vero di questi bagni di folla. Anche la presenza in zona della Santanché e di altri notabili milanesi del Pdl non ha giovato al trionfo riequilibratore. Perché davvero oggi il Cavaliere ne aveva bisogno dopo una settimana piena di fischi risorgimentali, preoccupazioni olgettinesche, irrisolutezze libiche e mortificazioni da parte dei Grandi. Ma gli serviva, questo auto-risarcimento, senza comprimari, generici e macchiette. Piuttosto azzeccato nella sua drammaticità era in compenso lo scenario bianco marmoreo del Palazzo di Giustizia di Milano. L’improvvisata tribuna del predellino vive in effetti di atmosfere esclusivamente ambrosiane. Di solito Milano fornisce all’Italia i suoi capi, ma poi li abbatte anche, vedi Mussolini e Craxi. Mentre Roma si limita in genere ad acclamarli con un entusiasmo su cui è ragionevole nutrire le più fondate riserve, come si intuisce anche solo guardando le grandi foto di folle che comparivano su Il Tempo sopra il titolo: «In delirio per Silvio». Quando nell’aprile scorso, nel cortile di Palazzo Chigi Berlusconi presentò alla stampa il nuovo Suv Uaz russo (poi donato a La Russa), fece lo spiritoso e nel lodarne le caratteristiche rimarcò: «E poi c’è anche un grazioso predellino, ah-ah!». Al che i fotografi gli chiesero di salirci sopra, ma lui: «No, no, certe cose non si ripetono, è buona la prima». La prima, appunto, fu a piazza San Babila nel novembre del 2007. Sceso dalla sua Mercedes, rotti gli indugi che fin lì l’avevano trattenuto, il Cavaliere si arrampicò lì sopra per proclamare unilateralmente la nascita del Pdl. La sua breve orazione è oggi compresa ne «I discorsi che hanno cambiato l’Italia» (a cura di Antonello Capurso, Mondadori, 2008), e seppure l’inserimento suona eccessivo, fu quella un’ostentazione di festosa potenza anche fisica che aprì effettivamente la strada alla svolta; e alla lenta cottura di Fini. Tutt’altro che festoso fu il predellino bis, nel dicembre del 2009, a piazza Duomo, dopo che Berlusconi ebbe ricevuto la statuetta di Tartaglia sul volto. In quella circostanza fermò l’auto e istintivamente, sfidando il pericolo salì sul fatidico strumento, scivolò e poi ancora risalì per mostrare in dolorante silenzio alla folla come il colpo l’avesse ridotto una maschera di sangue: «Una sorta di Sacra Sindone al vivo» secondo Marco Belpoliti, autore de «Il corpo del Capo» (Guanda, 2009); come se proprio in quel gesto e in quegli sguardi si rivelasse la segreta natura del patto che lega Berlusconi ai suoi seguaci. Nulla di tutto questo pare di scorgere nel predellino ter. Non ancora una parodia, ma un replica forse troppo ingegnosa per sopravvivere alle emozioni di un giorno. Vero è pure che da gran tempo i predellini aiutano i potenti in difficoltà , come si legge nei Promessi sposi a proposito del governatore spagnolo capitato nel mezzo dei tumulti milanesi: «La folla, da una parte e dall’altra, stava tutta in punta di piedi per vedere; mille visi, mille barbe in aria; la curiosità e l’attenzione generale creò un momento di generale silenzio. Ferrer, fermatosi quel momento sul predellino, salutò con un inchino la moltitudine, come da un pulpito, e messa la mano sinistra al petto, gridò: “pane e giustizia”; e franco, diritto, togato, scese in terra, tra l’acclamazioni che andavano alle stelle». E come al solito il comando si rinnova per restare sempre uguale a se stesso.
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