by Editore | 31 Marzo 2011 7:38
Dopo l’estate 2010 torna con il nuovo anno il capriccio del petrolio. Nel Canale di Sicilia e in quella parte di Mediterraneo antistante, l’isola a tre punte e le minori, Pantelleria in ultimo, tornano al centro del ciclone con indagini da parte delle grandi compagnie di trivellazione interessate al greggio siciliano al punto da studiare bene i cavilli legislativi, superarli e bucare in profondità per estrarre l’oro nero di Sicilia. Con un governo regionale che si dice «dalle mani legate» e il fronte ambientalista pronto a scendere in piazza, torna all’attacco la Northern Petroleum che si fa beffa del no del ministero all’Ambiente, del dissenso di una Regione a Statuto speciale, battendo il pugno sulla legge che non oppone limiti, superando le 12 miglia dalla costa. Perché è fin lì che la legge italiana tutela il mare nostrum e le nostre coste. Dopodiché possiamo già da subito abituarci a quei mega mostri in acciaio che affondano i loro denti nei fondali marini in cerca di ricchezza. E allora, un po’ più in là in termini di tempo, dal gravissimo disastro che ha colpito il golfo del Messico, riempiendo pagine di Esteri e di cronaca mondiale per mesi, le compagnie che hanno annusato l’affare nel Mar di Sicilia non mollano l’osso e insistono. Da alcuni mesi infatti davanti il litorale della Perla nera del Sud, Pantelleria, la capitale dei dammusi, ingegneri e padroni dell’oro nero sono tornati a cacciare in cerca di nuove perforazioni da effettuare. Presto detto, lanciato l’allarme è stato subito raccolto da gruppi ambientalisti, governi regionale e nazionale ma a quando pare non c’è norma che regoli l’estrazione del greggio dopo una certa distanza dalla costa. Sembra che il primo interlocutore con cui dovranno battersi le grosse multinazionali del greggio sono proprio le voci della tutela ambientale, Greenpeace che è già pronta a scagliarsi con azioni di forza e a bloccare possibili flow down nel mare della Sicilia e i movimenti a difesa dell’ambiente come “Stop alla piattaforma” che già la scorsa estate si sono fatti sentire a gran voce, opponendosi e creando focolai di rivolta in tutta l’isola, fino a raggiungere Roma e i banchi del governo. Il modo c’è, per salvare il Mediterraneo dai fori dei trapani da mare. Nero su bianco, si può fare. Con il Mediterranean Action Plan, creato sotto la tutela dell’Unep, l’United Nation Enviroment Program, il programma dell’organizzazione delle Nazioni unite per la tutela dell’ambiente voluto nel 1972 e con quartier generale a Nairobi, in Kenya. Il piano del Map prevede la creazione di una rete di Aree Marine Protette nel Mediterraneo e tra queste la più importante è proprio il Canale di Sicilia, da qualche anno oggetto del desiderio dei petrolieri. Insomma se il ministero arriva prima delle società londinese specializzata nella ricerca di idrocarburi liquidi e gassosi che ha già annunciato la fine delle operazioni di esplorazione sismica tridimensionale della parte ovest del Canale, forse riesce a fare il suo dovere. Idrocarburi cercasi anche in quel di Puglia dove a dicembre scorso sempre la Np ha avanzato la richiesta di fare delle trivellazioni lungo un tratto di costa che si estende da Polignano a Mare sino ad Otranto lungo 6.600 chilometri, per verificare la presenza o meno di idrocarburi da estrarre. Per cercare di impedire quello che può rappresentare un grave rischio per le coste pugliesi, il 23 dicembre i comuni di Otranto, Ostuni, Fasano, Polignano a Mare, Monopoli, Carovigno, Brindisi, Melendugno e la Provincia di Brindisi, presso la sede municipale di Ostuni, hanno sottoscritto un «parere» congiunto. Anche in questo caso il documento è stato indirizzato al ministero dell’Ambiente e dello Sviluppo Economico. Intanto nel Canale di Sicilia la Northern ha tirato i remi in barca di quelle navi lanciate nelle operazioni di esplorazione sismica, appositamente attrezzate per identificare le zone dal sottosuolo più ricco di petrolio e gas naturale, e metterle in produzione. 1520 chilometri quadrati di fondali scandagliati per conto di Shell, proprietaria di diverse concessioni per lo sfruttamento di idrocarburi in Sicilia, a terra e in off shore, che a breve diventeranno altrettanti pozzi trivellati. Shell e Np accendono le preoccupazioni di politici e primi cittadini. Il sindaco di Favignana e il senatore Antonio D’Alì, presidente della commissione Ambiente al Senato, conosciuto per la sua posizione anti Kyoto e per una poco chiara proposta di riforma del sistema dei parchi naturali. D’Alì, non molto tempo fa, ha persino presentato un’interrogazione ai ministri dell’Ambiente Prestigiacomo, degli Esteri Frattini e dello Sviluppo Economico Scajola per sapere cosa e come esattamente stesse cercando l’azienda londinese. Gli ha risposto il sottosegretario all’Ambiente Roberto Menia, pro rigassificatore, a terra e non nel golfo, di Trieste, e al ritorno al nucleare. Menia ha escluso ogni rischio per l’ambiente perché esplorare non vuol dire per forza trivellare. «È da precisare comunque – dice – che la società Northern Petroleum non può procedere alla perforazione di un pozzo, né all’allestimento di un qualunque impianto di estrazione, visto che l’esecuzione di tali operazioni è possibile solo dopo aver ottenuto, da parte dei competenti uffici periferici della Direzione generale per le risorse minerarie ed energetiche del Ministero dello sviluppo economico e da parte del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare e delle altre amministrazioni statali interessate, l’ulteriore verifica di compatibilità ambientale e le ulteriori autorizzazioni specifiche». Quale multinazionale del petrolio si metterebbe a spendere soldi per scandagliare fondali che poi non può trivellare? Ed ecco che D’Alì risponde a Menia. «È necessario fermare in partenza le attività di esplorazione tanto più quando le si vorrebbe svolgere nelle vicinanze delle aree marine protette. È auspicabile, pertanto, che il ministero dell’Ambiente sia maggiormente prudente nel dare il concerto per l’autorizzazione di tali attività ». Tutto da rifare dunque? La primavera delle trivelle è oramai alle porte con i suoi cercatori d’oro nero. Atwood Eagle, la contestatissima trivella dell’Audax che, in barba al no della Regione e a quello dei sindaci, dall’11 luglio scorso galleggia a 13 miglia dalle coste di Pantelleria, dopo un temporaneo abbandono, ha ripreso i sondaggi. Shell, dal Canale di Sicilia, ha già detto di aspettarsi 150 mila barili al giorno, mentre la Bb, forte dell’accordo con la Libia, è pronta ad accendere i motori. Il decreto anti-petrolio, firmato dal ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo, emanato lo scorso 26 agosto potrebbe non salvare nemmeno il mare agrigentino, dove la Hunt Oil Company ha avanzato una richiesta di permesso a poche miglia dall’Isola Ferdinandea, una delle tante bocche vulcaniche di un massiccio complesso sottomarino, il regno di Empedocle, l’Etna marino, il gigante sommerso che fa ancora tremare i fondali. Lo ha scoperto Mimmo Macaluso, esperto di geotecnica, che avverte: «Lo scorso agosto si è verificata l’esplosione di una sacca di metano nell’area oggetto di ricerca. Immaginate se lì ci fosse stata una piattaforma». Secondo i dati delle associazioni ambientaliste, sarebbero più di cento i permessi di ricerca richiesti o vigenti nel Mediterraneo. Molti dei quali interessano proprio la Sicilia. Il decreto anti-petrolio dunque non servirà a proteggere le nostre acque. «Il decreto ha il merito di salvaguardare le coste – spiega Mario Di Giovanna, portavoce di StoppaLaPiattaforma – Ma purtroppo questo non basta. In caso di fuoriuscita di petrolio non saranno certo poche miglia a salvarci. E poi ad oggi nessuna tutela è stata pensata per evitare che piattaforme petrolifere possano nascere sulle pendici di un vulcano, lungo le faglie sismiche, sui banchi corallini o sopra le innumerevoli zone di riproduzione di moltissime specie di pesci». Il permesso della Petroleum, rilasciato nel 2004, sarebbe dovuto scadere nel 2010 – le autorizzazioni di ricerca in Italia hanno una durata di 6 anni – ma il ministero dello Sviluppo Economico, lo scorso maggio, ha concesso alla Northern l’ennesima proroga. Per l’assessore all’ambiente Gianmaria Sparma «la Regione ha le mani legate. I nostri pareri non sono vincolanti – dice – Il ministero dello Sviluppo economico qualche tempo fa ha negato l’autorizzazione a una compagnia petrolifera citando il parere negativo del nostro assessorato». Dal 2000 la multinazionale texana Panther Oil ha avviato contatti con le amministrazioni siciliane per ottenere l’autorizzazione a piantare pozzi nelle campagne non lontane dai siti che l’Unesco ha dichiarato patrimonio dell’umanità nel 2002. La Regione ha concesso i permessi nel 2004, ma l’anno dopo scoppia la polemica e il governo blocca le concessioni. Tra il 2005 e il 2007 il Tar accoglie però due ricorsi della Panther, che intanto ad agosto 2007, dopo una polemica ambientalista e politica (a giugno Andrea Camilleri aveva lanciato un appello su Repubblica: 30mila firme raccolte contro le trivelle) dichiara di rinunciare a cercare il petrolio. Nel 2008 invece il Tar cambia idea e blocca i petrolieri texani; due anni dopo è il Consiglio di Giustizia Amministrativa (Cga) a riconsentire la ripresa delle perforazioni. La concessione era stata rilasciata dalla giunta Cuffaro (Udc), ma contrastata dall’allora assessore An ai Beni culturali e poi al Turismo, Fabio Granata, il pasionario futurista. Partita la protesta, poi si sono accodati un po’ tutti, per convenienza politica.
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