L’Italia nella stretta del patto di stabilità 

by Editore | 30 Marzo 2011 5:54

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Più stringente perché impone sentieri di rientro del debito e non più solo di contenimento del disavanzo maturato di anno in anno. Più forte perché si inverte l’onere della prova. Sin qui per varare sanzioni contro chi non lo rispettava, la Commissione aveva bisogno dell’approvazione del Consiglio a maggioranza qualificata. D’ora in poi dovranno essere i due terzi dei rappresentanti dei governi nazionali ad opporsi ad un’eventuale sanzione comminata dalla Commissione. E non si tratta di sanzioni modeste: contemplano, fin dall’apertura delle procedure di infrazione, il congelamento in depositi infruttiferi dello 0,2 per cento del Pil. Particolarmente rilevanti sono per noi le decisioni prese sui tempi con cui verranno messe in atto le nuove regole e sui “fattori rilevanti”, vale a dire le condizioni che potranno essere invocate dai singoli paesi per ottenere un aggiustamento fiscale meno oneroso senza incorrere nelle sanzioni. Sul primo aspetto il documento sottoscritto a Bruxelles non lascia spazio ad ambiguità : la prima verifica scatterà  nel 2015 e dovrà  prendere in considerazione l’aggiustamento compiuto nel triennio precedente. Prima del vertice si era parlato di regole in vigore dal 2015 in poi. Non sarà  così: la prima verifica guarda dal 2015 in prima. Tradotto in obiettivi di bilancio significa che nel triennio 2013-15 dovremo ridurre il rapporto fra debito pubblico e Pil di circa 8 punti percentuali. Quanto ai fattori rilevanti, la clausola secondo cui i paesi con un basso debito privato potranno invocare un’applicazione meno stringente del Patto, la cosiddetta “clausola Tremonti” dato che il nostro ministro si era molto speso in questa direzione, sembra valere nel testo più come aggravante che come attenuante. In altre parole, un alto debito privato implica un aggiustamento più rapido dei conti pubblici, ma non è vero il contrario e cioè che un basso debito privato permetta di mantenere più a lungo un alto livello di debito pubblico. È giusto che sia così perché il risparmio privato non è fungibile dai governi, a meno che questi abbiano in mente di tassare con imposte straordinarie i patrimoni dei loro cittadini, cosa che ci auguriamo vivamente non sia neanche tra i retro-pensieri del nostro ministro dell’Economia. Inoltre, tra le aggravanti si fa esplicitamente riferimento al debito pensionistico. Questo è molto alto in paesi come il nostro dove la previdenza è quasi interamente affidata al settore pubblico. Per raggiungere gli obiettivi che ci vengono richiesti dall’Europa dobbiamo puntare su di una forte accelerazione della crescita. Continuando a crescere come nel quinquennio precedente alla Grande Recessione e con tassi di interesse che sono nel frattempo tornati a salire, dovremmo ottenere fin dal 2013 un avanzo primario (al netto delle spese per interessi) del 5 per cento per realizzare quanto richiesto dal nuovo Patto di Stabilità . È il doppio di quanto contemplato dalla Legge di Stabilità . Non è un obiettivo irraggiungibile (ci siamo già  riusciti nel triennio 1996-8), ma certo è difficile, anche perché il rischio di una politica di rientro che punti solo sulla riduzione del disavanzo è che abbia a sua volta effetti negativi sulla crescita, rendendo ancora più oneroso l’aggiustamento. Con una crescita al 2 per cento, invece, potremmo farcela limitandoci a rispettare gli obiettivi di finanza pubblica già  tracciati. Le nuove regole del Patto serviranno ad affrontare la crisi del debito pubblico, tutt’altro che sopita come ci segnalano le ultime aste di titoli pubblici in Portogallo. Sono insufficienti, perché il grosso del lavoro resta da fare nei bilanci delle banche, ma rappresentano pur sempre un primo passo. Possono anche servire a farci uscire dalla palude in cui ci troviamo, mettendo la classe politica di fronte alle sue responsabilità . Oggi prevale, tra chi ha in mano le leve della politica economica, l’illusione che sia possibile risanare i conti pubblici ignorando la crescita della nostra economia. E tra chi è all’opposizione si afferma spesso l’idea che per tornare a crescere si debbano necessariamente allargare i cordoni della spesa pubblica. Sono entrambe idee sbagliate, che concedono alibi pericolosi alla conservazione. Ci sono molte riforme favorevoli alla crescita che possono essere fatte a costo zero. Altre sono possibili cambiando la composizione della spesa pubblica o del prelievo fiscale, senza gravare sui saldi. Basta comparare il bilancio dello stato in Italia e nel Regno Unito per accorgersene. Spendiamo tre punti di Pil in meno di loro per istruzione e ricerca, sette punti in meno per ammortizzatori sociali che rendano meno costoso lo spostamento di lavoratori verso mansioni, imprese e settori in espansione. Di converso, spendiamo 16 punti di Pil in più di loro in politiche previdenziali e, quando gli oneri del debito si abbassano perché diminuiscono i tassi di interesse come nel biennio 2007-9, aumentiamo ulteriormente la spesa pensionistica e riduciamo quella per l’istruzione. Domenica il nostro ministro dell’Economia ha passato mezzora in televisione parlando di tutto tranne che delle decisioni prese a Bruxelles. Un’omissione grave perché bisogna tradurre gli impegni presi a livello europeo in provvedimenti immediati. Certo, un governo che tira solo a campare ha ben poco da dire a riguardo. Una cosa, a dir la verità , Tremonti l’ha detta sull’Europa: tradurrà  in italiano le leggi che in Francia restringono l’accesso agli investitori stranieri. Per velocizzare i tempi, ci abbiamo pensato noi (si veda lavoce.info) e possiamo rassicurarlo: in Francia né l’energia, né l’alimentare sono considerati per legge settori strategici da proteggere da investitori stranieri. E il vertice di Bruxelles della scorsa settimana ha rilanciato il progetto del Mercato Unico. Sarà  bene tenere conto di tutto questo se non vogliamo incorrere in nuove infrazioni e multe a carico del contribuente per aver difeso l’italianità  di Parmalat. Si ricordi anche il ministro che, in quanto a multe sul latte, abbiamo già  dato.

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