Libia, petrolio al sicuro
Il puzzle, sempre più, trova la sua completezza. I ribelli, alle porte di Tripoli, sono stati abbandonati a loro stessi nei giorni scorsi. Il regime ha ripreso l’iniziativa, arrivando alla periferia di Bengasi. Solo allora si è mossa la comunità internazionale, con la no fly zone estensiva, visto che non si è limitata a impedire all’aviazione di Gheddafi di attaccare, ma ha anche bombardato le colonne dell’esercito libico, rovesciando l’esito della guerra.
Grazie anche alle armi nuove di zecca che sono arrivate, alla fine, nelle mani degli insorti permettendo loro di avere ragione nel corpo a corpo con i blindati dell’esercito che rinculano verso Sirte e Tripoli, mentre a Misurata si combatte casa per casa.
Questo è il bollettino di guerra, ma come ogni conflitto c’è un’agenda politica che va di pari passo. La Francia e l’Inghilterra assieme, l’Italia e la Germania divise, si apprestano domani a Londra a produrre proposte diplomatiche per uscire dalla crisi libica. Adesso che il petrolio è messo in sicurezza, nelle mani del governo transitorio, si può ragionare a mente fredda. Perché i rischi erano tanti.
Da un lato non si poteva lasciare un tale tesoro nelle mani di un’armata brancaleone (motivo probabile del tardivo riconoscimento da parte dell’Occidente dei nuovi padroni di Bengasi), dall’altro lato non si poteva tornare a trattare con Gheddafi dopo tutto quello che era accaduto. Ora si può: i ribelli devono tutto all’appoggio militare della coalizione e di sicuro saranno interlocutori malleabili. Il regime, da parte sua, è in un vicolo cieco e sarà più facile metterlo alle corde.
Qualche numero, aiuta. Con 46,5 miliardi di barili di riserve accertate, la Libia è la più grande economia petrolifera del continente africano. Non solo. L’oro nero libico ha una caratteristica tecnica molto importante. Gli esperti lo chiamano sweet, a basso contenuto di zolfo. Quando viene estratto ha costi di raffinazione di molto inferiori a quelli, ad esempio, del petrolio saudita, detto sour (alta presenza di zolfo). Margini di profitto, dunque, enormi. Anche perché negli anni dell’embargo alla Libia la produzione ha risentito dei ritardi tecnologici accumulati. Questo significa tante cose, in primis scarse rilevazioni per monitorare nuovi giacimenti di petrolio e di gas.
C’era chi lo diceva già nel 2005. Matthew Simmons, un banchiere texano, pubblica un libro choc intitolato Il Crepuscolo nel deserto. Per Simmons e per le sue fonti, l’Arabia Saudita sopravvalutava di proposito le proprie riserve di petrolio. La produzione saudita – per Simmons – ha raggiunto il suo massimo e il continuo sfruttamento rischia di esaurire presto le riserve di greggio.
Nel 2008 arriva il rapporto del World Energy Outlook (Weo) dell’International Energy Agency (Iea). Secondo gli analisti, la domanda di energia (sospinta dalle economie emergenti) crescerà del 45 percento tra il 2006 e il 2030. Una bocca famelica, difficile da sfamare, nonostante un Iraq ormai accomodante. L’analisi dell’Iea si chiudeva con una metafora: servirebbero quattro produttori tipo l’Arabia Saudita.
Il 7 luglio 2010, dopo una visita a Washington , il re saudita Abdallah ha annunciato che l’Arabia Saudita ha smesso di cercare nuovi pozzi. Una notizia che ha gelato i mercati europei e nord americani, anche perché la Cina controlla una percentuale sempre maggiore delle riserve mondiali. Il barile crolla a meno di 80 dollari, le raffinerie sono in vendita ma nessuno le compra.
”Cosa possiamo fare di più? E’ un problema di qualità ”, annuncia rassegnato – sempre nel 2008 – il generale Mohammed Barkindo, segretario generale dell’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio (Opec). Il petrolio senza zolfo, ecco cosa serve. E serve tenerlo lontano dalla mani cinesi. La Libia è un’ottima risposta a tutte queste domande e da oggi (con il barile ben oltre i cento dollari) è molto più facile immaginare una sponda meridionale del Mediterraneo più affidabile dal punto di vista delle nostre economie.
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