Le accuse dei pm: candidò l’uomo di Provenzano
PALERMO – La richiesta di archiviazione della Procura per Saverio Romano ruota attorno a una parola: «Contiguità », così ha scritto il pm Nino Di Matteo. Contiguità di un politico con ambienti mafiosi, che non basta certo per chiedere un processo, ma è sufficiente per alimentare più di un dubbio. Lo stesso dubbio che ha espresso il Quirinale. Anche perché, secondo la Procura, quella «contiguità » sarebbe provata dalle dichiarazioni di un pentito «attendibile» e «riscontrato»: è Francesco Campanella, l’insospettabile ex presidente del consiglio comunale di Villabate. Ma non è solo una richiesta di archiviazione a pendere su Romano. La Procura lo tiene ancora sotto inchiesta per corruzione aggravata, dopo le dichiarazioni di Massimo Ciancimino: il supertestimone dei pm ha raccontato che nel 2004 avrebbe recapitato a Romano una mazzetta da 80 mila euro, tramite un intermediario, per un’attività di lobbying attorno ai finanziamenti della metanizzazione. È quella parola, «contiguità », a unire storie di frequentazioni equivoche e di incontri al confine fra il penalmente irrilevante e il moralmente discutibile. Storie che stanno tutte dentro la sentenza della corte d’appello di Palermo che ha aperto le porte del carcere all’ex governatore Totò Cuffaro, il più vicino compagno di viaggio di Romano. È proprio quella sentenza a ricordare che vent’anni fa dubbi e perplessità furono recapitati ai due giovani virgulti della Dc dall’allora ministro Mannino, il loro maestro. Con tanto di sonoro rimprovero per un’iniziativa azzardata. Romano e Cuffaro erano andati nel salotto dell’imprenditore Angelo Siino, un incensurato che era il ministro dei Lavori pubblici di Riina. Era la vigilia delle regionali, che vedevano Cuffaro in corsa: «A Siino fu chiesto sostegno elettorale», dice la sentenza. Siino ha raccontato che era stato l’allora ventisettenne consigliere provinciale Romano a organizzare l’incontro. In quel 1991 la carriera del giovane avvocato di Belmonte Mezzagno era ancora agli inizi: alle spalle la scuola politica di Mannino e l’attività da segretario regionale dei giovani Dc, fra i quali militava anche il Guardasigilli Alfano. La corsa di Romano sarebbe scattata dieci anni dopo, nel 2001 che passerà alla storia per il 61 a 0 del Polo in Sicilia. L’avvocato diventa deputato, proprio quando Cuffaro viene eletto governatore. Di lì un cammino a braccetto, nell’Udc dai numeri bulgari di cui Romano sarà il segretario regionale. Il 2001 segna anche l’inizio di un altro capitolo della sentenza Cuffaro. È ancora Campanella, l’uomo che fornì la carta d’identità al boss Provenzano, a narrarlo. Scrivono i giudici: «Campanella incontrò Romano per chiedergli l’inserimento di Giuseppe Acanto nella lista Biancofiore e ciò riferendogli espressamente che si trattava di un candidato sostenuto dal gruppo di Villabate e da Antonino Mandalà ». Ovvero dall’insospettabile avvocato che era il mafioso più influente al soldo di Provenzano (è stato condannato a 8 anni). Concludono i giudici: «Romano assicurò l’inserimento del candidato (…) mandando i saluti per Mandalà ». Ecco i sospetti che hanno accompagnato l’ultimo tratto del viaggio di Romano: sempre indagato, mai imputato, negli anni dell’ascesa e della caduta del gemello Totò. Fino al bivio: Cuffaro in carcere, Romano ministro. E una delle questioni più imbarazzanti che potrebbe presto affrontare a Palazzo Chigi riguarda il suo paese, Belmonte, amministrato dallo zio Saverio Barrale. Il Viminale ha inviato tre ispettori per verificare eventuali infiltrazioni mafiose nel Comune. Come si comporterà Romano se Maroni ne dovesse proporre lo scioglimento?
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