L’uomo che salvò i capolavori
Nella chiesa dell’Immacolata di Sutri, provincia di Viterbo, lavorarono per due ore e mezza. A mani nude smurarono «le grappe della cornice di ferro che tiene a posto il cristallo di protezione del dipinto», un Cristo in casa di Marta e Maria del cinquecentesco Jacopo Zucchi. A poca distanza piovevano grappoli di bombe. Era così che Emilio Lavagnino, durante l’occupazione tedesca di Roma, agli sgoccioli della seconda guerra mondiale, metteva in salvo quadri e altri oggetti d’arte. Un’opera avventurosa e piena di fascino, che fu decisiva per la tutela di un patrimonio minacciato e che rivive in un volume curato da Raffaella Morselli per conto della Fondazione Bellonci. Il volume – che raccoglie scritti di Andrea Emiliani, Paola Nicita, Belinda Granata e Simona Rinaldi, con la prefazione di Tullio De Mauro – s’intitola Fuori dalla guerra (Mondadori, pagg. 279) e ricostruisce le peregrinazioni di Lavagnino fra chiese e palazzi laziali alla frenetica ricerca di opere da nascondere in Vaticano, dove sarebbero state al sicuro. Ma soprattutto propone una schedatura di tutto ciò che fu salvato da Lavagnino, costruendo un’ideale galleria di capolavori che altrimenti sarebbero finiti in polvere oppure depredati dai tedeschi. Una specie di catalogo di sopravvissuti. E infine riproduce il diario tenuto dallo stesso Lavagnino e la relazione che questi stilò, dopo la liberazione di Roma, al Soprintendente. Lavagnino era uno storico dell’arte, funzionario del ministero dell’Educazione nazionale. A lui nel 2006 ha dedicato un romanzo sua figlia, Alessandra Lavagnino (Un inverno 1943-1944, Sellerio). Fra febbraio e maggio del 1944, a bordo di una scalcinata Topolino, con le ruote procurate da Palma Bucarelli, la leggendaria direttrice della Galleria nazionale d’Arte moderna, e per il resto a sue spese, compresa la benzina raccattata al mercato nero, Lavagnino prese a battere le strade dell’alto Lazio, schivando mitragliatrici e bombe, e seguendo un itinerario fra le chiese che sapeva contenevano quadri preziosi. Cominciò con due opere di Sebastiano del Piombo, la Pietà e la Flagellazione custodite nel Museo civico di Viterbo, seguite nella stessa città da altri quadri. È lui che racconta: «Il Girolamo da Cremona e l’Antoniazzo della Cattedrale, il polittico del Balletta di S. Giovanni in Zoccoli e la grande tavola di Lorenzo di Bicci di San Sisto». In una prima fase era accompagnato da colleghi, da un autista e anche da un ufficiale tedesco, Peter Scheibert, che poi sarebbe diventato professore di storia all’università . Ma da un certo momento in poi fece tutto quasi da solo. Dopo Viterbo eccolo a Sutri, quindi a Vetralla, Montefiascone, Bagnoregio, Orvieto, Acquapendente, Bolsena. E poi Caprarola e Ronciglione, Trevignano e Bracciano. Il suo “bottino” fu ricchissimo: quei quadri erano pregiati in sé, ma rappresentavano soprattutto l’esperienza artistica di un territorio minore, erano i simboli di un paesaggio culturale che andava sottratto alla distruzione e alla rapina e consegnato a una memoria viva. Un esempio di tutela a qualunque costo.
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