L’ultima battaglia sul simbolo dei sikh

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Sei metri di stoffa attorcigliati come (un loro) Dio comanda sul capo di milioni di indiani stanno facendo venire il mal di testa all’Italia. E presto finiranno pure all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, almeno secondo quanto promette Nuova Delhi, che ieri ha convocato l’ambasciatore italiano per una protesta ufficiale affinché Roma mostri la «dovuta sensibilità », perché il turbante è sacro e non si tocca. A scatenare la crisi diplomatica il caso dell’allenatore di golf di fede sikh Amritinder Singh, che il 16 marzo era diretto a un torneo internazionale. Mentre transitava dallo scalo di Malpensa era stato costretto dagli agenti della sicurezza a togliersi il copricapo. Per lo sportivo era stata una tremenda «umiliazione». Tanto che non solo era corso dal suo console a denunciare l’accaduto, ma la sua vicenda era rimbalzata sui giornali indiani e aveva spinto l’ambasciatore a Delhi, Giacomo Sanfelice Di Monteforte, a scusarsi e dichiarare che il rispetto dei simboli religiosi era «una sensibilità  nota e condivisa da chi effettua i controlli a Malpensa», pertanto il caso doveva considerarsi «un incidente isolato». Invece, neanche per niente: la stessa scena si è curiosamente ripetuta quando il golfista è ripassato dallo scalo per imbarcarsi sul volo di ritorno. E stavolta il ministero degli Esteri di Nuova Delhi ha convocato il rappresentante della Farnesina per «una protesta formale per la ripetuta umiliazione», che ha assicurato che è in corso un’inchiesta sull’incidente. Non solo. La crisi diplomatica del turbante ha fatto irruzione nel Parlamento indiano, creando un altro grattacapo al governo, già  bersagliato da accuse di corruzione. «A cosa sono servite le prime scuse dell’ambasciatore italiano se il fatto si è ripetuto?» ha detto sarcastico un senatore accusando il governo di debolezza. Il fatto che a chiedere spiegazioni in aula siano stati i parlamentari della destra indù del Bharatiya Janata Party non è solo il segno della volontà  di colpire il governo in un periodo di campagna elettorale. È anche che nell’India multi-religiosa l’idea di secolarismo è sacrosanta ed opposta a quella europea: sta nell’impossibilità  dello Stato di interferire con la loro fede. Tant’è, per dire, che la legge indiana esonera i motociclisti sikh dall’indossare il casco. Il kesh, il precetto di non tagliarsi i capelli, è tra i più rispettati del Sikhismo e indossare il turbante per raccogliere le chiome è caratteristica quintessenziale di un sikh (il 2% degli indiani). Non a caso, il golfista fermato a Malpensa ha detto: «È stato come sentirmi denudato di fronte a centinaia di persone». E non a caso quella italiana non è la prima querelle destata dal turbante in Occidente. La Polizia di New York fu stata costretta a reintegrare un agente sikh, dopo averlo sospeso perché non voleva togliersi il panno quando in servizio. In Francia polemiche feroci vennero scatenate all’introduzione della legge che vieta segni di fede nelle foto dei documenti. Ora l’Italia. E Nuova Delhi annuncia battaglia: «Andremo all’Onu e otterremo una risoluzione favorevole».


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