by Editore | 24 Marzo 2011 7:51
Nazioni dai confini tracciati in modo artificiale dai poteri coloniali, dove sono intrappolate miriadi di tribù e di sette che non si sono mai fuse in un’unica famiglia di cittadini. Si tratta di Libia, Iraq, Giordania, Arabia Saudita, Siria, Bahrein, Yemen, Kuwait, Qatar e Emirati Arabi Uniti. Le tribù e le sette sono state tenute assieme dal pugno di ferro delle potenze coloniali, dei re o dei dittatori militari. L’alternanza democratica al potere è impossibile perché ogni tribù vive all’insegna del «governa o muori» – o la nostra tribù, la nostra setta, è al potere oppure siamo finiti. Non è un caso che le rivolte per la democrazia in Medio Oriente abbiano preso il via in tre “Paesi veri” – Iran, Egitto e Tunisia – con popolazioni moderne, maggioranze omogenee che antepongono la nazione alla setta o alla tribù, e hanno la fiducia reciproca sufficiente a coalizzarsi, come fosse una famiglia, «tutti contro il papà ». Ma nel momento in cui queste rivoluzioni si sono diffuse alle società più tribali-settarie, è difficile capire dove finiscano le istanze democratiche e dove inizi il desiderio che «la mia tribù sostituisca la tua». In Bahrein, la minoranza sunnita, pari al 30 per cento della popolazione, governa sulla maggioranza sciita. Grazie ai matrimoni misti molti sunniti e molti sciiti si sono fusi e, da portatori di identità politiche moderne, accetterebbero la vera democrazia. Ma per molti altri abitanti del Bahrein la vita è una guerra tra sette, un gioco a somma zero, come per i falchi della famiglia Al Khalifa, attualmente al governo, che non hanno intenzione di mettere a rischio il futuro dei sunniti del BahrEin con una maggioranza sciita al potere. Per questo si è passati molto presto alle armi. O governi o muori. L’Iraq è un buon esempio di cosa ci vuole per democratizzare un grande Paese arabo tribalizzato, una volta che il leader dal pugno di ferro è stato rimosso (in quel caso dagli Stati Uniti). Ci vogliono miliardi di dollari, 150 mila soldati Usa a fare da arbitro, miriadi di vittime, una guerra civile in cui entrambe le parti devono misurare il proprio potere, e poi un difficile parto, di cui siamo stati la levatrice, una Costituzione scritta dalle sette e dalle tribù irachene che stabilisce le regole di convivenza senza il pugno di ferro. Mettere gli iracheni in grado di scrivere il loro contratto sociale è la cosa più importante che l’America abbia fatto. È stato, a dire il vero, l’esperimento liberale più importante della storia araba moderna perché ha dimostrato che persino le nazioni tribali possono, ipoteticamente, passare dal settarismo alla moderna democrazia. Ma è ancora soltanto una speranza. Gli iracheni non hanno sciolto definitivamente il grande dubbio: l’Iraq è così perché Saddam era com’era, oppure Saddam era com’era perché l’Iraq è così, ossia una società tribalizzata? Tutti gli altri Stati arabi oggi terreno di rivolte – Yemen, Siria, Bahrein e Libia – sono incubatrici di guerre civili tipo quella irachena. Alcuni possono avere la fortuna che l’esercito li traghetti alla democrazia, ma non c’è da scommetterci. In altri termini la Libia è solo un primo esempio dei tanti dilemmi morali e strategici che andremo ad affrontare man mano che le rivolte avanzano tra le «tribù accorpate sotto una bandiera». Concedo al presidente Obama un’attenuante. È una questione complessa e rispetto il desiderio del presidente di impedire un massacro in Libia. Ma dobbiamo essere più cauti. La forza del movimento democratico egiziano stava nella sua autonomia. I giovani egiziani sono morti a centinaia nella lotta per la libertà . E noi faremmo bene ad essere doppiamente cauti nell’intervenire in luoghi che possono crollarci tra le mani, come in Iraq, soprattutto se non sappiamo, come in Libia, chi siano davvero i gruppi di opposizione – movimenti democratici guidati da tribù o tribù che sfruttano il linguaggio della democrazia? Infine, purtroppo, non possiamo permettercelo. Dobbiamo impegnarci nel nostro Paese. Se il presidente Obama è pronto a prendere delle decisioni importanti, difficili, urgenti, non sarebbe meglio che innanzitutto queste si concentrino sul nation building in America, piuttosto che in Libia? Non dovrebbe prima realizzare una vera politica energetica, che indebolisca i vari Gheddafi, e una politica di bilancio che garantisca il sogno americano per un’altra generazione? Una volta fatto questo seguirò il presidente “dai saloni di Montezuma alle spiagge di Tripoli”, come cantano i marine. ©The New York Times. Traduzione di Emilia Benghi
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