La Siria alla resa dei conti governo verso le dimissioni “Fine dello stato d’emergenza”
È LA crisi più profonda, la resa dei conti per Damasco. La protesta divampata anche in Siria dopo il contagio dal Maghreb ha spinto il presidente Bashar al Assad a schierare le truppe a Latakia, per fronteggiare le contestazioni: è la prima volta in undici anni di governo. La città portuale è diventata il centro degli scontri negli ultimi giorni, dopo Dera’a e Homs. Nelle prossime ore Assad dovrebbe rivolgersi al popolo, con tutta probabilità in un discorso televisivo. Forse l’ex studente di oftalmologia diventato leader quasi contro voglia sottolineerà le notizie di apertura, magari ripetendo quello che la sua consigliera Bouthaina Shaaban ha già annunciato ai microfoni di Al Jazeera: le leggi d’emergenza in vigore dal 1953 saranno abrogate, ha detto la Shaaban, senza però dare una scadenza precisa. O magari il presidente sceglierà di ribadire che «entro la settimana sarà cancellata l’articolo 8 della carta costituzionale, che prevede il Baath come partito unico» e «nelle prossime ore il governo si dimetterà », come i funzionari di Damasco hanno anticipato alla tv panaraba Al Arabiya, aggiungendo che verrà anche varata una legge per la libertà di stampa. Oppure Bashar potrebbe fare appello ai concittadini, come ieri ha fatto il suo ministro degli Interni, esortando la popolazione, «per la sua stessa sicurezza», a non seguire gli appelli via Facebook o via Sms per partecipare alla protesta nella piazza Umayyad della capitale. Ma al di là dei contenuti del discorso in tv, per il regime è ormai arrivato il punto di non ritorno. La spinta della contestazione sta mettendo Bashar alla prova in maniera decisiva. I primi segnali sembrano suggerire che il figlio di Hafez al Assad cercherà di sopravvivere all’onda rivoluzionaria concedendo aperture graduali. Ma lo spostamento delle truppe verso Latakia lascia pensare che il presidente vuole considerare ancora valida l’ipotesi di ricorrere al pugno di ferro. E il ricorso agli autoblindo e al bagno di sangue appare ancora possibile, tanto più che gli osservatori considerano altamente improbabile un intervento occidentale come quello in Libia. Se questa eventualità non fosse stata esplicitamente esclusa dal Dipartimento di Stato Usa, basterebbe comunque uno sguardo alla situazione geopolitica: la Siria, considerata da altre amministrazioni Usa come “paese canaglia”, fa parte di uno schieramento anti-israeliano ed è al centro di una ragnatela di legami delicatissimi, con il sostegno ai palestinesi di Hamas e agli sciiti libanesi di Hezbollah. In parole povere, un intervento in Siria appiccherebbe il fuoco all’intero Medio Oriente. La decisione di Bashar, se ricorrere o no alla brutalità , dipenderà da fattori diversi, ma soprattutto dalla prevista reazione delle Forze armate. La repressione selvaggia sarebbe una scelta molto pericolosa per lo stesso presidente, visto che la truppa sunnita difficilmente accetterebbe di aprire il fuoco sui dimostranti sunniti per ordine di uno sciita alawita. Negli scontri dei giorni scorsi sono morte, secondo fonti mediche, «dozzine di persone». Le cifre si accavallano, l’ultima stima è di Human Rights Watch, secondo cui a Latakia le persone uccise negli scontri sarebbero una sessantina. La situazione nella città portuale è particolarmente delicata, perché Latakia ospita una miscela di appartenenze etnico-religiose ed è una roccaforte della minoranza alawita a cui la famiglia Assad appartiene. La polizia siriana ha anche fermato due cittadini americani: uno studente che, a detta del padre, si limitava ad assistere alle manifestazioni, e un ingegnere dal doppio passaporto, Usa-Egitto, accusato di aver ceduto immagini delle proteste.
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