La sinistra e il dopo-intervento Quella idea di Libia che non c’è

Loading

Sarebbe il caso, Ionesco a parte, di provarsi a capire perché. Evitando, se possibile, di incamminarsi su piste che non portano da nessuna parte. Per cominciare, la sostanziale identificazione tra il movimento pacifista e la sinistra non sta in piedi. Nel passato, perché né la sinistra ufficiale né quella extraparlamentare coltivarono mai il pacifismo assoluto: la stessa coesistenza pacifica di kruscioviana memoria fu sostenuta dal Pci come la strategia più efficace per dare scacco all’imperialismo e favorire i movimenti di liberazione nazionale, primo tra tutti quello vietnamita. Nel presente, perché di sinistre ce ne sono una, nessuna e centomila, da quella (maggioritaria) che si ritrova nella risoluzione dell’Onu e nelle parole di Giorgio Napolitano via via fino a quella (minoritaria) che si riconosce nelle posizioni di Gino Strada: di quale, esattamente, stiamo parlando? Ma soprattutto: ad affollare le piazze e ad appendere le bandiere arcobaleno alle finestre contro la guerra in Iraq nel 2003 fu una moltitudine infinitamente più ampia di quel che restava della sinistra italiana, e in quella vastissima mobilitazione giocò una parte decisiva (è qualcosa più di un esempio) tutto un mondo cattolico che, con la sinistra moderata così come con quella radicale non c’entrava un bel nulla. Anche molti che pacifisti «senza se e senza ma» non erano si chiesero all’epoca se quel grande movimento multicolore che attraversava non solo l’Italia, ma un po’ tutto l’Occidente, non potesse essere la culla di un nuovo pensiero e di una nuova politica, non più attardati nelle beghe tra una destra e una sinistra parimenti novecentesche, per il Terzo Millennio; qualcuno giunse a teorizzarlo. È lecito dispiacersene, ma bisognerà  pure riconoscerlo: si trattava di previsioni infondate. Nessun nuovo pensiero, nessuna nuova politica. Altre sofferenze, invece, e altre guerre odiosamente definite «umanitarie» o, se la parola guerra, comunque aggettivata, si ha pudore a pronunciarla, altre operazioni di «polizia internazionale» . Probabilmente ancora con una maggioranza che preferirebbe una soluzione politica, ma senza più alcun movimento pacifista di massa che sappia contestare in radice il discorso delle armi. Anche perché ieri c’erano George Bush jr., il suo codazzo di sostenitori dell’esportazione manu militari della democrazia, le patenti menzogne sulle armi di distruzione di massa e sui collegamenti con Osama Bin Laden di Saddam Hussein con cui prendersela. E invece oggi che alla Casa Bianca c’è Obama resta pressoché solo Sarkozy: troppo poco, anche perché a puntargli addosso il dito accusatore provvede l’anti interventismo tutt’altro che utopico, e anzi conservatore e iperrealista, della destra. Dunque: il pacifismo «senza se e senza ma» sembra così debole e privo di mordente che risulta persino un po’ eccessivo intimargli bruscamente (lo fa, oltre a Sofri, Luigi Manconi sull’Unità ) di indicare qui e subito alternative realistiche all’intervento militare per salvare le vite degli insorti libici o tacere per sempre. E in ogni caso questa vistosa debolezza non basta ad assolvere del tutto quella parte (maggioritaria) della sinistra che all’intervento è favorevole e alla quale andrebbero rivolte domande assai diverse: le domande, per intenderci, che si rivolgono, specie in un momento drammatico, a chi sta sì all’opposizione, ma nutre l’ambizione di governare prima o poi, più prima che poi, il Paese. È opinione magari non del tutto fondata, ma certo assai diffusa, che per molti motivi, non tutti ascrivibili ai baciamano di Berlusconi, non tutti legati a un’insopprimibile ansia di difendere i diritti umani in pericolo, di questa vicenda, comunque si concluda, tra i Paesi occidentali sarà  l’Italia a pagare, e su molti terreni, il prezzo politico ed economico più salato. Giusto, giustissimo rimproverare anche aspramente al presidente del Consiglio e al governo le loro responsabilità  di ieri, a cominciare dalla concezione privatistica dei rapporti internazionali, e i loro balbettii di oggi. Ma chi dall’opposizione contesta e rimbrotta non può limitarsi ad alzare, come giustamente fa, le bandiere delle Nazioni Unite, della Nato e del Quirinale. Deve (dovrebbe) anche avere proposte e programmi fondati su una sua idea di come salvaguardare, nel mondo, in Europa e in primo luogo nel Mediterraneo, e in forme tali da favorire la crescita della democrazia dove tutto o quasi, sin qui, ha teso ad escluderla, l’interesse nazionale. Che, a guardar bene, è come dire una sua idea di Paese. Di un Paese che con la Libia ha avuto sin troppo a che fare, dalla Libia dista un tiro di schioppo, eppure di quanto stava bollendo in Libia e di quali fossero le fazioni in campo, a quanto pare non aveva, né a destra né a sinistra, la minima idea, e forse ha tuttora un’idea alquanto vaga. Di questo, più ancora che della distinzione filosofica tra guerra giusta e guerra ingiusta, sarebbe importante parlare agli italiani già  in queste ore. Se non succede, un motivo ci sarà  pure.


Related Articles

Libia, assalto al parlamento: feriti due deputati

Loading

La folla furiosa invade il Palazzo al grido «dimissioni» Ira per la proroga del mandato

Schiaffo ingiustificato

Loading

A certe esclusioni l’Italia non è nuova, ma quella che si è consumata ieri sera risulta talmente clamorosa da autorizzare alcune domande scomode per noi e per altri. Alla vigilia dell’odierna conferenza di Londra che dovrebbe finalmente indicare una chiara strategia politica nella campagna di Libia, i massimi responsabili di Usa, Francia, Gran Bretagna e Germania si consultano in videoconferenza. Sarebbe sciocco dire che queste cose non vanno fatte.

Trump va alla guerra. Un copione consolidato

Loading

Avvengono secondo un copione consolidato, gli attacchi ordinati da Trump nella notte scorsa sulla base aerea siriana di Khan Sheikhou.

No comments

Write a comment
No Comments Yet! You can be first to comment this post!

Write a Comment