La scommessa del mondo arabo in cerca dei piccoli Mandela per creare le nuove democrazie

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Preparatevi a sloggiare, autocrati arabi: e anche tu, Ahmadinejad. Da persona che ha sempre creduto nel potenziale democratico di questa parte del mondo, sono allo stesso tempo fiducioso e preoccupato sulle prospettive. Fiducioso perché i popoli arabi lottano per un governo più rappresentativo e onesto, che è ciò di cui hanno bisogno per superare l’enorme divario in termini di istruzione, libertà  e autonomia delle donne, un divario che li ha tenuti in posizione arretrata. Ma compiere un tale passo significa attraversare un terreno minato fatto di problemi tribali, settari e di governance. Il modo migliore per comprendere le potenzialità  e le trappole che questa transizione presenta, è quello di pensare all’Iraq. So che in America la guerra in Iraq e lo sforzo per costruire la democrazia che ne è seguito ha costituito un elemento di divisione tale che nessuno desidera parlarne. Oggi però ne parleremo, perché quell’esperienza ci ha dato una lezione importantissima sul modo di gestire il passaggio verso il governo democratico di uno Stato arabo multi-settario, una volta che il coperchio è saltato. La democrazia richiede tre cose: i cittadini, vale a dire persone che si considerano parte di una comunità  nazionale indifferenziata, nella quale chiunque può essere governante o governato. Richiede autodeterminazione, cioè l’andare a votare. E richiede ciò che Michael Mandelbaum definisce “libertà ” (liberty). «Mentre votare determina chi governa – spiega Mandelbaum – la libertà  determina ciò che i governi possono o non possono fare. Il termine libertà  abbraccia tutte le regole e i limiti che governano la politica, la giustizia, l’economia e la religione». E costruire la libertà  è davvero difficile. Sarà  molto arduo in quei Paesi mediorientali caratterizzati da grandi maggioranze omogenee, come l’Egitto, la Tunisia e l’Iran, dove già  esiste un forte senso della cittadinanza e dove, grosso modo, l’unità  nazionale è data per scontata. Lo sarà  doppiamente in tutti gli altri Paesi, divisi da identità  tribali, etniche e settarie e dove la minaccia della guerra civile è sempre presente. Nessun Paese, sotto questo aspetto, era più diviso dell’Iraq. Che cosa abbiamo imparato da quell’esperienza? Per prima cosa abbiamo visto che, una volta rimosso il coperchio autoritario, le tensioni tra iracheni curdi, sciiti e sunniti sono esplose e ogni fazione ha messo alla prova la forza dell’altra in una guerra civile strisciante. Ma abbiamo appreso anche che, oltre a quella guerra, molti iracheni hanno espresso il desiderio, altrettanto forte, di vivere insieme da cittadini. Nonostante tutti gli sforzi feroci di Al Qaeda per scatenare in Iraq una guerra civile su vasta scala, ciò non è accaduto. Nelle ultime elezioni irachene, il candidato che ha conquistato più seggi, lo sciita Ayad Allawi, ha presentato un programma che coinvolgeva anche i sunniti. La lezione da trarne è che sebbene le identità  settarie siano profondamente radicate e possano esplodere da un momento all’altro, nel Medio Oriente di oggi, più urbanizzato, più connesso e in cui si usano di più i social network, sono presenti anche forti controtendenze. «Nel mondo arabo esiste un problema di cittadinanza – sostiene Michael Young, autore libanese di The Ghosts of Martyr’s Square – ma ciò accade in parte perché questi regimi non hanno mai permesso alla loro gente di essere cittadini. Malgrado questo, possiamo vedere in che modo i manifestanti in Siria abbiano cercato di mantenere un comportamento non violento e di parlare di libertà  a nome dell’intera nazione». Lezione numero due: ciò che è stato cruciale nell’impedire, in Iraq, che la guerra civile strisciante esplodesse, ciò che è stato cruciale nella stesura della loro Costituzione circa il modo di vivere insieme e ciò che è stato cruciale nell’aiutare gli iracheni a gestire elezioni eque è stato il fatto di avere un credibile arbitro neutrale durante tutta la fase della transizione: gli Stati Uniti. L’America ha svolto il suo ruolo ad un prezzo sbalorditivo e non sempre in modo perfetto, ma lo ha svolto. In Egitto, è l’esercito egiziano a interpretare il ruolo di arbitro. Qualcuno dovrà  farlo in tutti questi Paesi in rivolta in modo da poter gettare con successo le basi della democrazia e della libertà . Chi farà  da arbitro in Libia, in Siria, nello Yemen? L’ultima cosa che l’Iraq ci ha insegnato è che, sebbene gli arbitri esterni possono essere necessari, non sono tuttavia sufficienti. Alla fine dell’anno lasceremo l’Iraq. Soltanto gli iracheni potranno sostenere la loro democrazia una volta che saremo partiti. La stessa cosa vale per tutti gli altri popoli arabi che sperano di avanzare nella transizione verso l’autogoverno. Quei Paesi devono trovare i propri arbitri, i loro Nelson Mandela. Vale a dire, sciiti, sunniti e capi tribali che si alzino e dicano gli uni agli altri quello che il personaggio di Mandela dice dei sudafricani bianchi nel film Invictus: «Dobbiamo sorprenderli con la moderazione e con la generosità ». Questo è ciò che i nuovi leader dei ribelli arabi dovranno fare: sorprendersi e sorprendere gli altri con una forte volontà  di unità , reciproco rispetto e democrazia. Più Mandela arabi emergeranno, più essi saranno in grado di gestire le proprie transizioni, senza generali dell’esercito o elementi esterni. Emergeranno? Stiamo a vedere e speriamo. Non c’è altra scelta. I coperchi stanno saltando. (Copyright New York Times – La Repubblica Traduzione di Antonella Cesarini)


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